Presentazione volume: “Finalmente le api mangiarono il miele”
da Santo Lombino
Nuova Busambra
Spi-Cgil Sicilia
Adarte editori
COMUNICATO STAMPA
Si presenta mercoledì 22 maggio 2013 alle ore 17.30 a Palazzo delle Aquile, Piazza Pretoria, Palermo, il volume “Finalmente le api mangiarono il miele. Autobiografia di un siciliano che non si rassegna”, di Giovanni LO DICO, a cura e con introduzione di Nicola Grato e Santo Lombino, Adarte editori, Palermo 2013.
Il programma prevede i saluti di Salvatore Orlando, presidente del Consiglio comunale di Palermo e dell’assessore al decentramento Giusto Catania. Interverranno: Ignazio E. Buttitta, Leonora Cupane, Salvatore Lupo, Salvatore Nicosia, Saverio Piccione, Domenico Tubiolo. Coordina i lavori J. Diego Catalano, consigliere comunale. Saranno presenti l’autore ed i curatori. L’iniziativa è organizzata dall’Istituto Gramsci Siciliano, da “Nuova Busambra” – quaderni di natura culture e società, dallo Spi-Cgil Sicilia e dall’editore Adarte.
L’autore ha 85 anni ed è nato a Misilmeri (Palermo), dove vive. Dal 2005 ha pubblicato cinque raccolte di poesie, che ha donato ad amici e conoscenti. Ha scritto a mano la sua memoria autobiografica su alcuni quaderni tra il 2010 e il 2012.
Il libro, diviso in quattro sezioni, racconta l’intera esistenza del bracciante. Esso parte dal racconto dell’infanzia rubata dell’autore-narratore, costretto a sei anni a lavorare nei campi come raccoglitore di olive con altri bambini che frequentano ad intermittenza le scuole elementari. A tredici anni. alla morte del padre, Lo Dico diventa bracciante agricolo, sarà poi mezzadro, mietitore stagionale a Corleone, Mezzojuso e Prizzi, coltivatore diretto. Nel secondo dopoguerra, sceglie l’impegno politico e sindacale, partecipando alle lotte per la riforma agraria, l’assistenza sanitaria per tutti, rendere vivibile il quartiere dove è andato ad abitare dopo il matrimonio. In pensione, partecipa a progetti educativi nella scuola primaria di Misilmeri e promuove le iniziative di un gruppo di coetanei per ottenere dal Comune adeguati locali per il tempo libero degli anziani.
IL LIBRO
“Finalmente le api mangiarono il miele. Autobiografia di un siciliano che non si rassegna”, a cura e con introduzione di Nicola Grato e Santo Lombino, Adarte editori Palermo marzo 2013, 145 pagine, € 12.
Il titolo si riferisce alla conquista, ottenuta dopo aspre battaglie, dei lavoratori agricoli che avevano i terreni a metaterìa presso grossi proprietari terrieri. Negli anni ’50, grazie ad un decreto del ministro Gullo, il prodotto del raccolto agricolo venne finalmente diviso dando il 60% al colono e il 40% al proprietario del fondo.
L’AUTORE
Giovanni Lo Dico è nato il 15 dicembre 1928 a Misilmeri (Palermo), dove vive. Ha frequentato le scuole elementari. Ha sposato nel 1957 Sara Rettino da cui ha avuto i figli Francesco ed Anna. Dal 2005 ha pubblicato a sue spese cinque raccolte di poesie e proverbi in dialetto siciliano, che ogni anno ha donato ad amici e conoscenti. Ha scritto a mano la sua memoria autobiografica su alcuni quaderni tra il 2010 e il 2012.
LA STORIA
Il libro parte dal racconto dell’infanzia rubata dell’autore-narrratore, costretto a sei anni a lavorare nei campi come raccoglitore di olive con altri bambini che frequentano ad intermittenza le scuole elementari. Quandi muore prematuramente il padre, la madre si impiega in lavori domestici a Palermo lasciando Giovanni e la sorella a vivere con i nonni. Lo Dico diventa a tredici anni bracciante agricolo, sarà poi mezzadro, mietitore stagionale a Corleone e Prizzi, coltivatore diretto. Dopo la seconda guerra mondiale diventa attivista politico e sindacale, partecipando alle lotte per la riforma agraria, la ripartizione del prodotto, l’imponibile di manodopera, l’assistenza sanitaria per tutti, rendere vivibile il quartiere abusivo dove è andato ad abitare dopo il matrimonio. Diventerà quindi consigliere comunale del Pci per venti anni e sarà impegnato nel movimento sindacale e cooperativo. Si accorge quindi della mutazione antropologica del suo partito e si dichiara in disaccordo con le politiche consociative. In pensione, partecipa a progetti educativi nelle scuole e promuove le iniziative di un gruppo di coetanei che otterrà dal comune di Misilmeri adeguati locali per il tempo libero degli anziani.
I CURATORI
Nicola Grato è docente di materie letterarie nella scuola media di Villafrati. Autore di testi teatrali, tra cui la trilogia di Horcynus Orca per il teatro del Baglio di Villafrati, ha curato alcuni libri tra cui “Lasciare una traccia. Scritti su La spartenza…” e pubblicato la raccolta di poesie “Deserto giorno” (2009). Fa parte della redazione di “Nuova Busambra”.
Santo Lombino ha insegnato storia e filosofia nei licei statali e si occupa di emigrazione, scritti autobiografici e storia locale. Ha curato convegni e mostre, scritto testi teatrali, partecipato a trasmissioni radiofoniche, curato diversi volumi di scritti autobiografici, tra cui “La spartenza” di Tommaso Bordonaro (Einaudi, 1991) . E’ autore di “I tempi del luogo” (1986),“Cercare un altro mondo” (2002) e “Una lunga passione civile” (2004).Fa parte della redazione di “Nuova Busambra” e dirige la collana “Fili di memoria” in cui il libro è pubblicato.
BRANI NOTEVOLI
LA RIFFA (1945)
Tutti desideravamo avere dei giocattoli: mi ricordo una
volta, due giorni prima della vigilia dei morti, passò un uomo
che arriffava, sorteggiava un cavallo di legno molto bello e
che io desideravo tantissimo. Un biglietto costava quattro
soldi. Il valore del cavallino era cinque lire. Feci guerra e
fuoco e finalmente convinsi mia madre ad acquistarne uno.
Portava il numero quarantadue, me lo ricordo ancora. Ho inseguito
quell’uomo per tutto il giorno, giravo per le strade assieme
a lui sperando che il sorteggio avvenisse da un
momento all’altro. ogni tanto urlava: Chistu è l’ultimu e tiramu!!
Ma l’ultimo acquirente non arrivava mai. Dalla via Pietro
Micca siamo andati a finire nelle strade sopra il quartiere
San Francesco. Finalmente era riuscito a vendere l’ultimo biglietto
e si poteva procedere all’estrazione del numero vincente.
Le donne che abitavano in quella strada si sono
avvicinate per assistere al sorteggio. Per me fu un momento
emozionante, in quell’attimo che il signore infilò la mano dentro
il sacco per estrarre il numero vincente mi concentrai con
tutte le mie forze pensando al famoso numero quarantadue.
Il numero che tirò fuori non era il quarantadue, ero bambino
e mi sono messo a piangere, me ne ritornai a casa come un
cane bastonato. Dissi a mia madre che il quarantadue non
era uscito e mia madre mi rincuorò e mi disse di non pensarci
più perché non era successo niente…
LA CRESIMA (1956)
La mia fidanzata Sara non era cresimata, come madrina scelse mia madre. Io mi
ero cresimato all’età di ventidue anni, il mio padrino era di
Marineo. Aveva sessant’anni all’epoca della cresima ed era
quasi sordo. A quei tempi nella mia parrocchia c’era un prete
che conoscevo da tanti anni, da quando era giovane. Questo
prete clandestinamente era “sposato”, dentro la casa canonica
aveva moglie e figli: tutti conoscevamo quella situazione!
Era ormai vecchio, molto vecchio, non confessava più nel
confessionale, ma nella casa canonica dove abitava. Per andarmi
a cresimare a Palermo occorreva il certificato di con-
fessione mio e quello del mio padrino. Io e il mio padrino
siamo andati in chiesa, la figlia del prete ci disse: “Il prete non
confessa più in chiesa perché sta male, ma là dove è seduto”.
Per prima sono andato io, il prete era sordo e anche parlava
a stento, io sentivo quello che lui mi diceva, ma lui non sentiva
quello che dicevo io. Il certificato non lo scriveva più lui
perché non ne era più capace, ma la figlia. Allora vista la condizione
di sordità del mio padrino e del prete, dissi alla figlia:
“Senta signora, mio padrino è sordo, il prete è pure sordo,
quindi non si sentiranno, è inutile che mio padrino va ad inginocchiarsi
davanti al prete se non si sentono!”. Mi rispose
con una voce di esclamazione: Nenti pozzu fari! (Nulla posso
fare). Certo era peccato mortale! Parlava proprio lei che era
figlia dello scandalo, figlia del peccato mortale! Vista la sua
ferma decisione dissi a mio padrino: “Ci vada!”. Così mio padrino
andò a inginocchiarsi ai piedi del prete, tutte due sordi,
io li guardavo a distanza, era una scena piuttosto comica, tutte
due si guardavano, ma non parlavano. Quando a mio padrino
gli seccò stare in ginocchio, si alzò e venne da me. Dissi
alla figlia del prete: “ora mi faccia il certificato di confessione!”.
Mentre stavamo per uscire, nel corridoio, dissi a mio
padrino facendo un cenno con la mano: “Il prete che le ha
detto?”. Lui mi rispose: Ma iu chi ntisi nenti? Ntisi sulu fetu
di pisci! (Ma io che ho sentito niente? Ho sentito solo puzza
di pesce) perché lì dentro la casa canonica, i figli del prete
stavano friggendo del pesce.
LA MARCHESA (anni ‘70)
Iniziammo l’occupazione delle terre nei vari comuni. In
tutti i feudi si vedevano centinaia di muli con gli aratri, tutti in
fila, che lavoravano le terre e quanti scontri diretti ci furono
tra i contadini, i proprietari e i mafiosi: scene indimenticabili!
Era una situazione drammatica, ma dovevamo affrontarla per
liberarci dalla schiavitù. Quelle condizioni di vita avevano costretto
molti siciliani ad emigrare, a scappare dalle campagne
e dalla miseria. Nel 1971 la federazione di Palermo
mi diede l’incarico di aprire a Misilmeri una sezione di un sindacato
che difendeva i mezzadri, affittuari e piccoli coltivatori
diretti, cioè l’Alleanza Contadini, oggi Confcoltivatori, la sede
fu in via Roma, io ne fui il presidente. Quante lotte ho fatto
insieme ai contadini! In Parlamento nel 1971 venne approvata
una legge che abolì la mezzadria, rimaneva solo l’affitto. Il canone
di affitto fu regolato da una legge, chiamata “legge sui
fondi rustici. Non mi affidai alla volontà di Dio
per fare applicare quella legge, sapevo con chi avevo a che
fare, con persone che per secoli e secoli avevano dominato
il mondo. Me la studiai bene e un bel giorno di domenica, finita
la mia mezza giornata di lavoro, anziché di andarmene a
casa dalla mia famiglia, partii per il feudo di Bongiordano,
detto L’acqua o Chiuppu. Era il tempo della mietitura, il mese
di luglio, c’era un caldo afoso, mi girai tutto il feudo, invitai
tutti i contadini a partecipare ad una assemblea che dovevo
fare sotto l’albero di pioppo, sotto il quale c’era una sorgente.
In quella assemblea spiegai, con la legge in mano, che non dovevano
pagare più il canone di affitto stabilito dalla marchesa, ma
quello stabilito dalla legge che era 28 volte il reddito dominicale.
Non fu facile convincerli perché poverini venivano da
una secolare sottomissione, non era facile rompere quella
gabbia di acciaio. In quell’assemblea usai una dialettica persuasiva,
incoraggiante, entusiasmante, ma la paura era tanta
e tale che si rifiutarono di chiederne alla marchesa l’applicazione.
Ne convinsi solo due, due compagni comunisti, cioè
Giuseppe Rizzolo e Salvatore Bonanno. Il giorno della trebbiatura
eravamo tutti là presenti, quando i due contadini che
ero riuscito a convincere chiesero alla signora marchesa l’applicazione
della legge per quanto riguardava il canone di affitto,
la nobile ingoiò il rospo e non parlò: conosceva bene
quella normativa! I due contadini coraggiosi non solo si portarono
a casa tutto il grano, ma essendo la legge in vigore da
due anni, chiedendone l’applicazione e quindi rifacendo il
conteggio anche per il canone dell’anno precedente, la marchesa
rimase debitrice nei loro confronti. I contadini di tutto
il feudo, sia di Misilmeri che di Marineo, che avevano avuto
paura ad affrontarla portarono a casa, come sempre, poco
grano, ma guardarono straniti tutto quello che era successo.
L’anno successivo, durante la mietitura tornai nel feudo a
rifare un’altra assemblea, questa volta non sotto l’albero di
pioppo, ma alle case che ci sono nel feudo Bongiordano,
nella strada che porta a Risalaimi. Parlai di nuovo della legge,
ma questa volta fui compreso facilmente, dopo l’esperienza
dell’anno precedente. Mentre stavo per finire l’assemblea,
ero riuscito a convincere tutti, ecco arrivare una macchina
lussuosa con due persone a bordo: la signora marchesa e il
suo autista. Si fermò proprio davanti ai nostri piedi, scese dalla
macchina e chiuse lo sportello con rabbia. Si avvicinò verso
di me spruzzando vapore come un toro infuriato e mi disse:
“Lei mi scandalizza i miei contadini fedeli!”. Io le risposi: “Fedeli
ci sono i cani! Questi sono uomini e devono difendere la
loro dignità!”.
IL MARESCIALLO (anni 70)
A quel punto, vista la fermezza dei contadini,
tentò altre vie, la via delle amicizie. L’indomani il maresciallo
dei carabinieri mandò una pattuglia nel feudo Bongiordano a
intimidire i contadini, dicendo che richiedendo l’applicazione
di quella legge sarebbero andati incontro a dei rischi e quindi
consigliavano loro di continuare con il vecchio sistema. I contadini
la sera vennero all’Alleanza Contadini e mi raccontarono
tutto, erano impauriti. Feci capire loro che era solo un
atto intimidatorio, avevano cercato di spaventarli, non potendo
fare nient’altro. Con i miei discorsi rassicuranti, superarono
quella paura e se ne andarono a casa. L’indomani
sera, tornando dal lavoro, mia moglie mi disse che erano venuti
a cercarmi due carabinieri, c’era il maresciallo che mi
voleva parlare. La cosa mi piacque perché era proprio quello
che volevo, parlare con il maresciallo. Andai subito in caserma,
mi presentai e il piantone mi portò in una stanza dove
c’era il maresciallo. La prima domanda che mi fece: “Signor
Lo Dico, lei in questi giorni è andato a fare qualche riunione
in qualche azienda agricola…”. Lo guardai in faccia e dissi fra
di me: “Ma guarda che maresciallo simpatico! Lui sicuramente
si aspetta che gli dico: “Ma, maresciallo io non sono
andato da nessuna parte…” . Il maresciallo voleva completare
la sua strategia intimidatoria, prima con i contadini in campagna,
poi con me che ero il loro rappresentante. Invece io a
quella domanda risposi con fermezza: “Maresciallo, ma di
quale azienda mi sta parlando lei, perché io di assemblee ne
faccio tante nelle varie aziende!”. “E in quale veste ci va a
fare queste assemblee?” — mi disse. “In qualità di presidente
dell’Alleanza Contadini” — gli risposi. “Ma lei lo sa che prima
di entrare nella proprietà che non è sua, bisogna chiedere il
permesso?” — continuò il maresciallo. Ed io: “Maresciallo,
posso andare in qualsiasi proprietà tutte le volte che i contadini
affittuari me lo chiedono, semmai se c’è una persona che
deve chiedere permesso per entrare in quelle aziende quella
è proprio la signora marchesa perché i contadini le pagano
l’affitto. Se lei paga l’affitto della sua casa, non è che il proprietario
arriva ed entra senza chiedere permesso. Questo
vale anche per la signora marchesa”. Mi disse: “Non mi stia
a fare il comizio!”. Gli risposi: “E’ lei che mi ha chiamato per
farle il comizio!”. Non potendo far niente in questa direzione
tentò un’altra via e mi disse: “Lei signor Lo Dico ha una pena
in sospeso…”. Subito capii di che cosa si trattava. Fino al
1961 le medicine gratuite spettavano solo al capofamiglia. Ci
furono scioperi in tutta Italia che durarono quindici giorni affinché
l’assistenza farmaceutica fosse estesa anche alla moglie
e ai figli. Durante uno dei tanti scioperi fummo denunziati
sette lavorator. Nel processo di appello, nel 1963, fummo
condannati a tre mesi con la condizionale, prescrivibili in anni
cinque. Il termine della pena era scaduto nel 1968. Quindi
dissi al maresciallo che cercava di spaventarmi: “Maresciallo,
i termini di quella pena sono scaduti!”. E il maresciallo: “E
allora non le posso fare niente!”. Ed io gli risposi: “Ma le cose
non durano in eterno! Maresciallo, mi aspettavo questo tipo
di comportamento da un altro tipo di persone, non da chi dovrebbe
essere un esecutore materiale della legge!”. Lui mi
disse: “Prima dovrebbero incominciare da Roma!”. Io gli riposi:
“Per intanto io inizio da Misilmeri!”.
IL CONSOCIATIVISMO (anni ‘80)
In quegli anni la democrazia cristiana aveva venti consiglieri
su trenta. Avrebbe potuto amministrare da sola tranquillamente
avendo la maggioranza assoluta, ma all’interno di questo
partito l’ideologia di don Luigi Sturzo incominciava a non
essere più ricordata. Tutti i venti consiglieri non riuscivano a
mettersi d’accordo, erano tutti divisi, ed allora cercarono una
nuova maggioranza nel nostro gruppo comunista. Come sindaco
eleggemmo Salvatore Saitta, una persona perbene. Durante
quella gestione successe un episodio nel mio quartiere.
Un giorno tornando dal lavoro con la mia moto ape, era nel
periodo estivo, erano le undici circa del mattino, vidi molte
donne che abitavano nella via A5, oggi via C. Giordano, davanti casa mia, aspettavano che io arrivassi per parlarmi. Era
successo che a metà di questa strada, si era rotta, nei giorni
precedenti, la fognatura. Si erano recati dal Sindaco
per fare presente la situazione, e lui si era attivato affinché
venisse effettuata la riparazione. Ma non appena l’impresario
arrivò con quei mezzi pesanti nella strada, doveva
servirsi degli scavatori per trovare il punto da riparare, la
strada si sventrò tutta, perché pensate ancora negli anni ottanta
quella via non era asfaltata, ma in terra battuta. Mi dissero:
Giuvanni, stannu scassannu tutta a strata, daccussì
mancu chiù dintra putemu trasiri! (Giovanni, stanno scassando
tutta la strada, così neanche più a casa possiamo entrare).
Dissi di non preoccuparsi che sarei andato a parlare
con il sindaco. Mi cambiai e andai al municipio. Ero un consigliere
comunale e chiesi di parlare con il sindaco, ma lui
non c’era. Allora chiesi se c’era l’assessore al ramo, cioè ai
lavori pubblici, non c’era nemmeno…
Allora decisi di tornare a casa e là c’erano le donne ad aspettarmi.
Raccontai che non avevo trovato nessuno, e dissi loro: “Volete che
questa strada venga asfaltata? Dovete fare quello che vi dico
io. Prendiamo le macchine e le mettiamo di traverso in mezzo
la strada”. Era l’ora di pranzo e l’impresario e gli operai se ne
erano andati a casa a mangiare. La mia proposta fu accolta da
tutte al volo. Quando, finita la pausa, gli operai
ritornarono, non poterono passare. E allora l’impresario mi
disse: “Giovanni, fai togliere queste macchine, perché io devo
lavorare.”. Ed io gli risposi: “Non ci provare, vai al comune
e vai a dire che gli abitanti della via A5 non ti vogliono fare
lavorare”. Se ne andò al comune e dopo una mezzoretta ritornò
con un buon numero di assessori, c’era mezza giunta a
cercare di convincerci a togliere il blocco. Un assessore mi
disse: “Consigliere Lo Dico, tu fai parte di questa maggioranza
e lo sai che per fare la strada, prima occorre la delibera di
giunta, poi deve essere approvata dal consiglio comunale, poi
deve andare alla commissione di controllo, quindi passano
circa otto mesi”. Ma le donne agitate, anticiparono la mia risposta
e urlarono: “Ma come faremo a stare otto mesi in queste
condizioni!”. Gli assessori presenti, alla fine, si resero conto
dei reali disagi degli abitanti della via e del carattere di urgenza
e si decise con il consenso di tutti di realizzare le opere necessarie
per la transitabilità. In questo modo la via A5 finì di
sembrare una via di un paese del terzo mondo, divenne una
via asfaltata, una via degna di un paese civile.
Successivamente al partito ci fu una riunione proprio per
parlare dell’accaduto. Venni accusato da un altro consigliere
comunista, uno di quelli che si era adeguato ai tempi, di essermi
comportato non da consigliere della maggioranza, ma
da consigliere dell’opposizione. Io risposi: “Io non guardo se
siamo in maggioranza o all’opposizione, io guardo se il problema
esiste o meno”. Perché la disonestà politica sta proprio
in questo, lo stesso problema se sei all’opposizione lo affronti
in un modo, se sei in maggioranza lo affronti in un altro modo.