Le vie dell’olio tra passato e futuro
La riflessione sabatina n. 10 di Pippo Oddo
«Qui c’è un albero non piantato dalla mano dell’uomo, germe nato da sé medesimo, e verdeggia abbondantemente in questa terra: l’olivo dalle foglie glauche […] che mai rapace vecchio o capo devastatore estirperebbe con le proprie mani poiché ad esso guardano gli dei del mondo dagli occhi chiari».
Così Sofocle in Edipo a Colono. Ma non era soltanto lui, nell’antica Grecia, a ritenere sacro l’ulivo. All’origine di questa credenza c’è una leggenda. L’onnipotente Zeus amava mettere in competizione i suoi parenti più stretti. Un giorno promise il dominio della terra a chi, tra gli dei dell’Olimpo, gli avesse presentato il dono più utile all’umanità. Si fece allora avanti suo fratello Posidone che, affondando il tridente nella roccia, fece sgorgare l’acqua del mare consentendo così agli Ateniesi di navigare a distanza e dominare il mondo.
Ma Zeus, che pure aveva un debole per gli Ateniesi, non se la sentì di assegnare la vittoria al fratello: volle mettere alla prova sua figlia Atena, prima di pronunciarsi. Questa cominciò a percuotere la terra ordinandole di produrre un albero nuovo e meraviglioso. Detto fatto: nacque l’olivo. Ebbro di gioia, Zeus dichiarò chiusa la gara e consegnò la palma alla figlia, sentenziando che mai dono divino sarebbe stato più utile all’umanità.
Leggenda per leggenda, perché non ricordare anche quella di Aristeo? Si tramanda che fu questo semidio nomade, figlio di Apollo e di Cirene, a diffondere la cultura dell’olivo in tutto il bacino del Mediterraneo. Peccato che gli Ebrei non ci credano. Vuole infatti una vecchia leggenda ebraica che quando morì Abramo gli trovarono tra le labbra tre semi, dai quali poi nacquero il cedro, il cipresso e l’olivo. L’albero «dalle foglie glauche» sarebbe quindi nato nella Terra Santa, per i figli d’Israele. Lo stesso popolo eletto è definito da Geremia «ulivo verde, maestoso». E non è privo di significato il fatto che ad annunciare a Noè la fine del diluvio universale sia stata una colomba «con una fronda novella di olivo nel becco».
Di grandissima considerazione ha sempre goduto anche presso i Cristiani la pianta dalla chioma sempreverde, se è vero che la croce di Cristo fu costruita con legno d’olivo e di cedro. Altrettanto sacra e considerata dall’Islam. Il Corano la considera infatti albero centrale, simbolo dell’uomo universale, del Profeta. Insomma, l’olivo è sempre riuscito a conciliare l’inconciliabile: profeti e sacerdoti pagani, Cristo e Maometto, Ebraismo, Cristianesimo e Islamismo.
Miti e leggende sono fioriti ovunque a profusione sull’olio e sull’olivo. E così i riti che, al di là della facciata, accomunano popoli assai diversi per lingua e religione, storia e concezione della vita: popoli che all’albero benedetto attribuiscono una grandissima ricchezza simbolica, facendone di volta in volta emblema di pace, fecondità, giustizia, sapienza, forza, purificazione…
Se nell’Iliade Achille fa ungere di olio il cadavere di Ettore, prima di restituirlo a Priamo, nel sacramento dell’estrema unzione il sacerdote somministra olio santo a chi sta per congedarsi dal mondo. Commentando i riti funebri cristiani, lo pseudo Dionigi ricorda che «dopo il saluto, il sacerdote spande olio sul defunto». Aggiunge che «nel sacramento di rigenerazione prima del battesimo, quando l’iniziato si è total¬mente spogliato delle vecchie vesti, la prima partecipazione alle cose sacre consiste nell’unzione di olio benedetto. E al termine della vita è ancora l’olio santo che si sparge sul defunto. Per l’unzione del battesimo si chiama l’iniziato all’agone dei combattimenti sacri; l’olio versato sul defunto significa che egli ha compiuto la sua carriera e messo fine alle sue lotte gloriose».
È opinione diffusa che l’unzione con l’olio d’oliva faccia risaltare muscoli: ne facevano largo uso gli atleti ellenici e continuano a farne, ovunque nel mondo, quelli dei nostri giorni. Nell’Africa del Nord, ma anche in altre regioni mediterranee, da sempre i contadini usano oliare il vomere prima di affondarlo nel suolo, forse in onore all’Invisibile e alla stessa Madre Terra, i cui frutti nutrono il genere umano e ne assicurano la sopravvivenza. All’olio e all’olivo si attribuiscono poteri straordinari persino in Estremo Oriente. I Cinesi, per esempio, credono che il legno d’olivo neutralizzi l’effetto letale di taluni veleni. Nel Mediterraneo l’olio ha addirittura assolto per millenni alla funzione di corsia privilegiata per il Paradiso. Basti pensare a quanto se n’è consumato per illuminare templi, chiese, sinagoghe e moschee. Un versetto coranico recita: «Il Dio! Egli è luce in cielo e in terra, e la sua luce è come quella di una nicchia: la lampada si trova serrata in cristallo come astro di splendore, rimane accesa grazie all’olio, pianta benedetta, questa pianta è l’ulivo. L’olio farebbe risplendere la luce anche se ne non la toccasse il fuoco, mai».
La lucerna ad olio è forse l’unico manufatto di uso domestico che si costruisce ininterrottamente dalla preistoria ai nostri giorni: viene ancora usata come lampada votiva. È, insomma, l’emblema dell’homo sapiens perché ha consentito ai nostri antichi progenitori di vincere il terrore delle tenebre. Anche per questo l’olio è ritenuto sacro, ma soprattutto per¬ché l’inizio della sua coltivazione coincide con la nascita dei villaggi contadini e la conversione alla vita sedentaria delle prime comunità nomadi.
Sulla regione d’origine dell’olivo ci sono varie opinioni. Una vuole che esso, originario dall’Asia Minore, sia stato introdotto in Grecia e da qui in Italia e nel Mediterraneo. Un’altra individua l’area di provenienza nella regione compresa tra i monti a sud Caucaso, le pendici dell’altipiano iranico e le coste della Siria e della Palestina. È risaputo però che l’ulivo si è sempre innestato sull’oleastro, che vegeta spontaneamente in quasi tutto il bacino del Mediterraneo. In Sicilia, per esempio, esistono ancora piccole aree residue di foresta naturale e tanti toponimi che ne attestano inconfutabilmente la presenza fin dal primo mattino del mondo: Ogliastro, Ogliastrello, ecc.
A ogni buon conto, i primi scrittori di cose siciliane confermano che, almeno in epoca classica, nell’Isola l’olivo era largamente coltivato ed aveva una grande rilevanza economica e paesistica. A detta di Tucidide e di Diodoro Siculo, nelle colline a ridosso di Siracusa e di Agrigento, con le sue foglie argentate, l’albero benedetto conferiva alla campagna un’immagine di raro benessere; l’olio si esportava. Sotto i Romani l’olivicoltura è stata forse ridimensionata (per destinare le aree di risulta alla produzione del grano necessario a nutrire i cittadini dell’Urbe), ma non è certo scomparsa, a giudicare dalla grande quantità di anfore olearie rinvenute in fondo al mare a poche miglia dalle costa siciliana. I Romani d’altronde apprezzavano l’ulivo, tant’è vero che lo diffusero in tutto il Nord Africa, fino al confine del deserto, e istituirono la cosiddetta Arca olearia, una sorta di moderna Borsa dove si trattavano grosse partite d’olio d’oliva.
L’olivicoltura fu poi rilanciata dai Bizantini e dagli Arabi; sopravvisse ai dominatori nordici, che pure facevano largo uso di grassi d’origine animale. Nel Cinquecento assurse alla dignità di coltura specializzata, come risposta alla crisi degli allevamenti di suini determinata dagli scriteriati disboscamenti che fecero quasi scomparire la produzione di ghiande.
Un’area di significativa espansione fu, nel Cinquecento, il Marchesato di Geraci, stando almeno a quanto si può leggere nel libro-inchiesta I contadini di Sicilia di Sidney Sonnino: il marchese «allo scopo di arricchire le città e le terre per attirarvi maggiore popolazione, dava a chiunque il per¬messo di innestare gli oleastri, che qui crescono dappertutto spontanei, e di far proprie le piante di ulivo». Proprie, per modo di dire. In forza del diritto dei nozzoli, i contadini erano costretti a molire le drupe esclusivamente nei trappeti del marchese; «le olive – spiega Orazio Cancila – già macerate sotto il torchio non dovevano che ricevere tre colpi di pressa per cacciare parte dell’olio». Il resto, che non era poco, restava assieme alla sansa al padrone.
Abolito nel 1785 dal viceré Caracciolo, il diritto dei nozzoli fu ripristinato l’anno dopo dal suo successore, principe di Caramanico. E, quando furono soppresse le angherie feudali, si istituirono I gritti di lu trappitu (di cui erano beneficiari i frantoiani), che pesavano sugli agricoltori più degli stessi diritti dei signori feudali. Aveva ragione Salvatore Salomone Marino: ‘Ntra trappitu, trappiteddu e trappitara, ogghiu mancu ni portu ‘na quartara. Era il lamento del contadino olivicoltore che dopo un anno di lavoro portava a casa poco olio. Senza considerare che non poteva sottrarsi al dovere di pagare, già dentro i locali del frantoio, il contributo in natura per la festa del Patrono. Ciononostante, il coltivatore siciliano non si è mai stancato di piantare e coltivare olivi. Li cura amorevolmente, quasi fossero persone.
Nelle aziende capitalistiche il monte giornate impiegato nella raccolta delle olive era generalmente distribuito per l’80% alle donne e ai fanciulli e per il 20% agli uomini; e, se dobbiamo prestar fede alle parole di Giuseppe Pitrè, la manodopera femminile era remunerata con salari di fame: «A due ore dal cominciamento della fatica, le più agiate della ciurma mangiano un grano di pane, qualche volta accompagnato con un pochino di cipolla e qualche oliva passa. Le altre, che si rimangono a dente asciutto, fingono di non vederle; e se da quelle invitate siano a partecipare del loro, abbassano la testa e rispondono aspramente: Obbligata!». Nell’ex contea di Modica, i raccoglitori di olive d’ambo i sessi dormivano in promiscuità in un magazzino della masseria: «tutti si stendono su d’uno strame coprendosi ciascuno dei propri abiti e le donne delle loro vesti, sovente umide». Dopo una lunga giornata di lavoro, «ricevono ciascuno in una ampia scodella una minestra di fave, metà della quale vien conservata pel domani, due ore prima dell’alba». Ma, per quanto trattate male, le raccoglitrici di olive non si stancavano mai di ringraziare il padrone che le aveva assunte, né di pregare l’Altissimo per propiziare nuove annate di carica; tanta era la paura di perdere quella misera fonte di reddito!
Dall’olivo non si ricava solo l’olio. Parte dei suoi frutti, appositamente curati, integrano l’alimentazione umana. Un tempo erano addirittura quasi il solo companatico della povera gente. La sansa alimentava forni, bracieri e focolari; la morchia si barattava col sapone. I polloni del portainnesto servivano per costruire ceste, panieri e altri oggetti di uso agricolo e domestico; dai tronchi si ricavavano mobili indistruttibili e stupende sculture; dai rami giocattoli e arnesi di lavoro.
L’olio d’oliva era fra l’altro ritenuto il toccasana di molti mali: ogghiu cumuni sana ogni duluri, recita un vecchio detto popolare. Talune malattie si curavano però con oli speciali come l’ogghiu di piricò, ossia olio d’oliva aromatizzato da «fiori e foglie d’iperico raccolti nella notte di San Giovanni». Non c’era male che potesse resistere di fronte all’olio d’oliva, se arricchito da talune essenze naturali come la ruta, quando bisognava curare l’isteria, o il succo di limone, nel caso di molte altre malattie, compreso il colera. E non si dimentichi che la medicina omeopatica tuttora fa largo uso del prezioso liquido estratto dalla drupa olearia. Le vie dell’olio, come quelle del Signore, sono insomma infinite. Dall’alimentazione alla cosmesi, all’industria farmaceutica… ovunque sembra che stiano per dischiudersi spazi davvero interessanti per la valorizzazione dell’olio d’oliva.
Né si può ragionevolmente temere che il provvidenziale grasso vegetale perda parte della sua importanza man mano che si consolidano le logiche del villaggio globale. Anzi, tutto lascia ritenere che l’olio d’oliva debba ricevere nuovi importanti apprezzamenti proprio dai mercati lontani dall’area di produzione. A farmi radicare in questa convinzione è soprattutto il successo che ogni giorno di più registra la dieta mediterranea, che com’è noto ha tra i suoi capisaldi l’olio d’oliva, ormai da molti anni apprezzato anche da tanti uomini e donne dei paesi nordici, già consumatori di grassi insaturi e oli di semi vari.
Giuseppe Oddo
Palermo 23 novembre 2013