Il linguaggio del sangue
la riflessione sabatina n. 11 di Pippo Oddo
Nell’agosto 1308 passa a miglior vita, nella mistica provincia umbra, la badessa suor Chiara di Montefalco dell’ordine di Sant’Agostino. Da anni nota come suor Chiara della Croce (perché convinta di ospitare il Crocefisso dentro il cuore), la Nostra gode pure fama di beata allorché cessa di vivere. Logica vuole, quindi, che le sue spoglie mortali siano imbalsamate per essere additate ai fedeli dei secoli a venire. Ma nessuno se la sente, al convento, di affidare la delicata operazione a un barbiere cerusico: trovano, insomma, sconveniente, le pie monache agostiniane, che le carni verginali della santa madre siano «toccate da uomo alcuno». Che fare, allora? Coperte dalle brume della notte, mentre il resto delle suore è già in braccio a Morfeo, quattro religiose prendono il coraggio a due mani e, armate di rasoio, si recano all’oratorio. Spogliano «con ogni riverenza maggiore» il santo corpo, lo aprono e ne estraggono il cuore e tutte le interiora». Ma passerà ancora più di una settimana perché suor Chiara possa essere imbalsamata a regola d’arte dalle stesse suore (con i balsami e i consigli di uno speziale incaricato dal convento, e con tanto di autorizzazione della Curia di Spoleto).
«Può sembrare sconcertante alla moderna sensibilità – osserva a tal proposito Piero Camporesi – la disinvolta familiarità con cui le monache di Montefalco aprivano cadaveri, tagliavano interiora, cuore, fegato, bile, sezionavano organi, trapanavano crani, estraevano e imbalsamavano carni, spolveravano mummie, dischiudevano e richiudevano casse mortuarie ritornando in contatto con cadaveri annosi. Ma le Montefalco erano ovunque innumerevoli».
All’origine di tanta macabra intraprendenza c’era, nel nostro caso, la morbosa curiosità di rintracciare la croce di Cristo dentro il cuore della defunta badessa. Lo trovarono, ancorché in miniatura e sotto forma di sangue raggrumato. O perlomeno così si legge in uno scritto del Seicento. A volerci credere, dentro quel cuore pietoso, c’erano pure, anch’essi miniaturizzati, gli altri strumenti del martirio di Cristo (frusta, chiodi, colonna, ecc.). E si rinvennero persino i segni della Santissima Trinità, in un altro ricettacolo del corpo e nella vescica del fiele. Per di più, all’atto della imbalsamazione, cioè dieci giorni dopo il decesso, il sangue trovato nel cuore era ancora «di colore rosso, come appunto è il colore del rubino». Conservato in un vaso, quel liquido vermiglio è rimasto per secoli così, salvo a ribollire d’improvviso «terribilmente» per segnalare lutti, catastrofi, guerre o epidemie. Sangue glorioso, dunque! Come quello di San Gennaro che, con spettacolarità tipicamente partenopea, si liquefa ogni 19 settembre sotto gli occhi commossi di una marea di Napoletani e di telespettatori di tutto il mondo.
Gloriosissimo, anzi preziosissimo, è il sangue di Gesù Cristo. È oggetto di devozione fin dal Medioevo, da quando cioè cominciò a circolare il Vangelo apocrifo di Nicodemo e fiorì la leggenda del Santo Graal, ossia del calice usato nell’Ultima Cena, che Giuseppe d’Arimatea avrebbe portato in Occidente. La Festa del Prezioso Sangue di N.S. Gesù Cristo fu però istituita dalla Santa Sede solo nel 1582 e limitatamente alla diocesi di Valencia in Spagna. Nel 1822 la nuova celebrazione liturgica fu estesa a tutta la cristianità, grazie all’impegno spasmodico di san Gaspare del Bufalo, fondatore della Congregazione dei Missionari del Preziosissimo Sangue. Dal 1914 la festa cade il 1° luglio.
Ma non è solo questo il momento dell’anno in cui i Cristiani venerano con particolare solennità il sangue versato da Gesù per redimere il genere umano. Basti pensare alle manifestazioni pasquali che tuttora si svolgono nella strade e nelle piazze del Sud. «In quasi tutti i paesi meridionali – nota Luigi Maria Lombardi Satriani – la visita al “Sepolcro”, la veglia in Chiesa, la processione con la Croce al Calvario, quella con Cristo deposto dalla Croce, raffigurato con piaghe nel Meridione d’Italia «ogni anno la cultura folklorica presentifica un modello di Dolore e di Riscatto», connotato dalla presenza del sangue di Gesù Redentore.
La stessa cosa fa la Chiesa, cattolica e ortodossa, tutte le volte che il prete dice la messa. Cos’altro significherebbe, infatti, la santa messa, se non il sacrificio del corpo e del sangue di Gesù Cristo che, sotto forma di pane e di vino, viene rinnovato dal sacerdote sull’altare? Adesso non più, forse, ma nel passato il mistero della transustanziazione del vino in sangue eccitava, soprattutto nel celebrante, atteggiamenti parossistici, di una morbosità incredibile. Se tanti preti di campagna, particolarmente smunti, si colorivano in viso durante la consacrazione del vino, san Filippo Neri, che pure era uno dei padri della riforma della Chiesa, «lambiva e succhiava con tale effetto il calice che parea non si sapesse staccare da quello, avendo consumato nell’orlo non solo l’indoratura, ma ancora l’argento e avendovi lasciato impressi insino i segni de’ denti». Forse anche per questo il sangue che gli scorreva sovente copioso dal naso e dalla bocca veniva raccolto dai fedeli. Anche per questo alle pezze imbevute dal suo sangue è stato attribuito più d’un miracolo.
Non si sbagliava il compianto Camporesi nel sostenere che il mistero del sangue ha stimolato per millenni «una vena inesauribile di miti, credenze, fantasie, leggende, superstizioni, fascinazioni magiche. In questo vermiglio brodo, cultuale prima che culturale, incubarono cosmogonie, fedi religiose, raptus mistici, precetti etici, dottrine mediche, comandamenti e tabù, statuti e prammatiche etico-civili. Da questo tiepido fluido sgorgarono la storia sacra e quella profana dell’umanità sempre immerse in un mare di sangue».
Succo della vita, filo rosso che lega l’ordito dell’intera vicenda umana e del suo rapporto con la natura, il sangue è elemento primigenio di ogni cultura, a cominciare da quella contadina. Tra sacro e profano, fascino e orrore, ansie salvifiche e pratiche autolesioniste, nelle campagne del Sud il suo linguaggio accompagna l’individuo dal primo vagito all’ultimo rantolo; ne determina i comportamenti in ogni fase dell’esistere. Lu sangu fa murmuru, attesta un’antica massima siciliana ricordata da Luigi Maria Lombardi Satriani in un pregevole saggio di cui è autore insieme a Mariano Meligrana: Il ponte di San Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud. Essa ribadisce «l’obbligatorietà della vendetta nei confronti dell’uccisore che solo potrà placare il mormorio del sangue dell’ucciso».
Ma il sangue non connota solo negativamente l’identità meridionale. Lu sangu min si pò fari acqua, recita un’altra massima, per ricordare che, tra parenti, su ogni disaccordo trionfa sempre la solidarietà. Lo stesso imperativo etico regola il comparatico, quella sorta di parentela spirituale che si instaura tra i genitori di un bambino e chi lo tiene a battesimo o a cresima: cumpari e cummari si considerano quasi parenti, più che parenti, in certi casi. Nell’antico carnevale della Contea di Modica c’era addirittura un giovedì dedicato alle cummari. In quell’occasione nelle famiglie contadine si uccideva il maiale e, quasi a voler rinsaldare un vero e proprio patto di sangue, le cummari si scambiavano costolette, interiora e sanguinacci, che erano «e son tuttora – scriveva nella seconda metà dell’Ottocento Serafino Amabile Guastella – doni accolti con sincera effusione». Ai nostri giorni non credo che ci sia più una sola persona che regala sanguinacci a parenti o amici. Ma qualcuno continua a mangiarli, visto che sono in vendita in talune “carnezzerie” della Sicilia interna e degli stessi quartieri popolari di Palermo. Si trovano sicuramente nelle Madonie, dove i rituali profani del sangue hanno una tradizione antica quanto la storia dell’insediamento umano in quelle contrade.
Quasi scomparso è nella nostra isola l’uso di uccidere il maiale in ambito domestico. Rimane forse qualche labile traccia in pochi paesi di montagna. La stessa cosa avviene fuori della Sicilia e sicuramente nel Potentino. «Una tradizione che resiste, ancora a Gallicchio, anche se limitata a poche famiglie, è l’uccisione del maiale», si legge infatti sul web. «Il suo sacrificio simboleggia per un verso la morte, la violenza e la sofferenza, dall’altro la vita che si rinnova: i 3-4 giorni di abbondanza che seguono la sua uccisione danno conforto e speranza per il futuro. Nelle fredde mattine d’inverno il maiale viene prelevato dal porcile dal proprietario con l’aiuto dei famigliari e di alcuni amici. Legato per il grugno viene trascinato verso il luogo scelto per la macellazione dove in un grande calderone nero, sta bollendo dell’ acqua. Tocca a una persona esperta recidere con un coltello, lungo e sottile (u scannatùrё), la carotide dell’animale tenuto fermo da almeno sei o sette uomini robusti. Una volta trafitto il collo del porco, viene per prima cosa recuperato il sangue con il quale si farà il sanguinaccio. Dopo poco il maiale muore dissanguato consentendo a coloro che lo trattengono di tirare un respiro di sollievo, quando infatti il colpo mortale non è ben assestato il povero animale si dibatte a lungo tra atroci sofferenze e urla strazianti».
Spettacolo particolarmente cruento, tipico dei paesi madoniti (ma anche di altre aree siciliane) era nel passato la scanna di capretti e agnelli che si face¬va periodicamente nelle grandi masserie: «In un batter d’occhio – racconta Cristoforo Grisanti – i garzoni portan quivi scodelloni e caldaie, i macellai, aiutati, se occorra dai pasto¬ri, con coltelli lunghi o sottili prendono posto in siti diversi, e, in due o tre ore, centinaia di vispi animaletti che saltellavano e belavano allegramente, sono colla massima indifferenza scannati […] quei tanti ventricoli vengono pazientemente riempiti del sangue che era stato conservato, legati al sommo, immersi nell’acqua bollente, estratti, dopo intostiti, messi a raffreddare, e gli intestini più stretti attorcigliati intorno ai più lunghi […] ed eccoti le famose stigghiole […] Lavatisi tutti e puliti, pecorai e garzoni, il curatolo che non è meno stanco degli altri, invita tutti, compresi i compratori, a riposarsi e mangiare nella masseria’, e tosto ciascuno siede e mangia del pane suo con pezzi di sangue ancora tiepido e stigghiole dagli allegri garzoni cotte sulla bragge o cenere calda non importa […] e i cani, irrequieti e dimenando le villose code, fuori van pescando qualche avanzo e lambendo qua e là fin le gocce di sangue cadute».
Scene come queste possono provocare disgusto a noi che viviamo nel terzo millennio; e non è da escludere che lo dessero anche a non pochi individui delle generazioni passate. Sta di fatto che il sangue era considerato un alimento importante, specialmente per le persone denutrite. Non a caso l’anemia si curava con grossi bicchieri di sangue che gli addetti ai macelli comunali non negavano mai a chi lo chiedesse. Spesso erano gli stessi medici a consigliare agli ammalati di rivolgersi al macello. E non si creda che nella Sicilia arcaica si consumasse solo sangue di animali uccisi; era apprezzato anche il sangunazzu di vistioli, frutto dei salassi che periodicamente si praticavano ai buoi e alle vacche: «rozzo cibo», ammetteva Cristoforo Grisanti, ma pur sempre «grazia di Dio» da dividere con parenti e amici.
Se, per sgravarsi del «sangue vecchio», i bovini e gli equini offrivano le vene alla balestra del maniscalco o dello stesso contadino, gli uomini si facevano salassare dal barbie¬re almeno una volta all’anno, preferìbilmente il giorno di san Valentino, a Palermo. «Altrove – cito Giuseppe Pitrè – era divozione fare altrettanto in certe solenne festività dell’anno; com’era consuetudine il farlo all’entrare di ogni nuova stagione in certi giorni designati, a luna nuova e non so con quali condizioni fìsiche o metereologiche». Il salasso era ritenuto efficacissimo nella cura della pleurite, della polmonite e di tante altre malattie. Per taluni mali erano invece preferite le mignatte, allevate e applicate, nemmeno a dirlo, dal barbiere. Tralasciando le innumerevoli pratiche magiche connesse al sangue e gli antichi tabù radicati nelle campagne meridionali fin dai tempi di Plinio e di Columella, è appena il caso di ricordare, sia pure di sfuggita, i rituali di autoflagellazione nelle comunità rurali. La letteratura agiografica dei secoli XVI e XVII è prodiga di informazioni in proposito: uomini e donne in odore di santità che durante la Settimana Santa si laceravano le carni; prediche di quaresimalisti che si concludevano con vesti stracciate e isteriche processioni di autoflagellanti.
Nato nella terra arsa dei tarantolati, dotato del potere della levitazione, san Giuseppe da Copertino nel corso della sua vita terrena si disciplinò tanto da farsi prosciugare fino all’ultima goccia di sangue. In compenso salvò più volte i campi dalla siccità. Memori, forse, dell’antico esempio del Santo pugliese, ancora nel 1975, in un paesino del Sannio circa trecento persone, che partecipavano a una processione per impetrare la pioggia, «si sono flagellate per ore secondo precise modalità condivise dall’intero paese». Miracoli di fede contadina! Miracoli universali, considerato che anche in Abissinia si faceva scorrere il sangue per far piovere.
Naturalmente ai nostri giorni non ci si flagella più per muovere a compassione Giove Pluvio. Ma qualche processione per impetrare la pioggia, con i preti in cotta e stola e gli stendardi delle confraternite, ogni tanto s’inscena ancora nei comuni della Sicilia interna, specialmente nei periodi di prolungata siccità. Non è forse, anche questa circostanza, spia di una concezione del mondo e della vita affermatasi in condizioni di estrema precarietà esistenziale? Concezione del mondo, cultura contadina criticabile quanto si vuole, ma comunque pregnante di valori, non ultimo dei quali quello della solidarietà, come dimostra la presenza in queste manifestazioni di persone estranee al processo produttivo agricolo.
Pippo Oddo
Palermo lì 30 novembre 2013