La strage di Giardinello 1893
di Pippo Oddo dal mio libro (Il miraggio della terra nel post-risorgimento siciliano, che sarà presto nelle librerie)
Il 10 dicembre verso mezzogiorno, a Giardinello «un gruppo di persone sbucò improvviso dalla via ove aveva sede il Fascio [costituito nel mese di ottobre] con alla testa il presidente dello stesso, Di Piazza Vincenzo, ed ingrossatosi con individui di ogni età e di ogni sesso che uscivano dalla chiesa dopo la messa domenicale, si avviò alla piazza principale, ove da un lato esiste la casa municipale, di fronte quella del sindaco sig. Angelo Caruso […], e da un lato quella dei congiunti di costui. Quivi furono emesse grida di: Viva il Fascio, abbasso le tasse e le guardie campestri. Il sindaco non ammettendo importanza a siffatte dimostrazioni, ridendo si affacciò al balcone e consigliò la calma, ma la moglie di lui commise l’imprudenza di gettare sulla folla un catino d’acqua». Successe il finimondo. I dimostranti «corsero alla vicina casa municipale, ne abbatterono la porta ed invasi i locali, gettarono sulla via e incendiarono mobili e registri […]. Impossessatisi quindi della bandiera e di due quadri rappresentanti la famiglia reale, i tumultuanti si diedero a percorrere le vie principali del paese». Un carabiniere corse a Montelepre a chiedere rinforzi, che non tardarono a venire: «il tenente dei Bersaglieri Sig. Cimino raccolse 23 dei suoi soldati e 6 carabinieri ed accorse a Giardinello, prendendo posto sul lato chiuso della piazza, avendo a destra la casa comunale, a tergo quella di Caruso Francesco, fratello del sindaco, ed a sinistra quella di costui e del comandante le guardie campestri Di Miceli Eugenio. Tornata in piazza la folla tumultuante, l’ufficiale tentò più volte di calmarla e di scioglierla, ma alle ripulse e alle grida minacciose ordinò di porsi nella posizione di crociat Arm. In questo momento si udì un colpo di fucile, che il tenente credette esploso casualmente da un bersagliere, e colpito alla tempia destra cadde fulminato un certo Iacona Salvatore». Fu l’inizio di una carneficina.
«Rimasero sul terreno sette cadaveri e diciannove feriti. Il tenente fatto subito cessare il fuoco, si ritrasse alquanto fuori del paese, sempre inseguito dalla folla, che malmenò il brigadiere rimasto un poco indietro. Durante la ritirata furono intese altre detonazioni provenienti dalla folla, furono le fucilate che uccisero i miserandi Nicosia Gaetano messo municipale [e guardia campestre] e la moglie di lui. Uscito quindi da una porta posteriore, unendosi alla guardia campestre Sgroi Francesco ed al Castaldo del Sindaco, Sgroi Antonino, coi quali tirò altri colpi sulla folla dal pianterreno della casa, mentre il Sindaco era stato chiuso dai suoi familiari in una camera del piano superiore. È stato inoltre indubbiamente stabilito che anche dalle case di Caruso Francesco fratello del sindaco partirono altri colpi sparati da lui e dai suoi figli. È rimasto assodato che quando la folla lanciò sassi contro le case del sindaco, il di costui nipote Di Miceli Eugenio da una finestra della propria casa sparò i primi colpi sui tumultuanti […]. Infine rimase provato che dei morti in quella dolorosa congiuntura, cioè nove durante il tumulto e due dopo, 6 individui furono uccisi dai colpi sparati dalle case del capo delle guardie campestri, del sindaco e del fratello di costui, non che da certo Sgroi Gaspare appaltatore dei dazi di consumo di Giardinello». Vale la pena di aggiungere che la richiesta di riduzione di alcune tasse (focatico, vetture e dazi di consumo) «e la soppressione delle Guardie campestri compreso il Comandante di esse, Di Miceli Girolamo, e Gaetano Nicosia», erano state richieste dal presidente del Fascio dei lavoratori ad ottobre. «Il sindaco, pur non nascondendo l’impossibilità dell’esaudimento dei voti del Fascio, promise farsene interprete presso il Prefetto onde ottenere quanto era legalmente possibile».
Dall’indomani le manifestazioni contro le manipolazioni dei tributi locali si estesero in molti comuni e i Fasci non sempre riuscirono a controllarle, anche perché la miccia della discordia, innescata dalla caduta del ministero Giolitti, aveva cominciato ad erodere la già faticosa unità del Comitato centrale e la sua capacità di dare la linea alle sezioni territoriali.