La strage di Caltavuturo

di Pippo Oddo
(dal mio libro “Il miraggio della terra nella Sicilia post-risorgimentale, 1861-1894)
il giorno di san sebastianoIl 20 gennaio 1893, festa di San Sebastiano, la piccola cittadina delle Madonie dove non era ancora arrivata nessuna propaganda socialista, né c’era Fascio [dei lavoratori], «ma una semplice cooperativa di consumo, invisa ai galantuomini perché utile ai contadini», fu segnata dal barbaro eccidio di 13 contadini, «saziati di piombo per aver chiesto pane e lavoro». Dopo un lungo braccio di ferro con i discendenti dell’ex signore feudale, duca di Ferrandina, residente in Spagna, il Comune era riuscito ad ottenere 250 ettari di terra nella contrada San Giovannello, in seguito all’abolizione degli usi civici esercitati dalla popolazione sugli ex feudi ancora in possesso della famiglia padrona. I contadini chiedevano da tempo l’assegnazione di queste terre, che nel frattempo erano state usurpate dai galantuomini locali, uno dei quali era il segretario comunale Antonino Oddo. In un primo momento il sindaco accettò la richiesta, ma non mantenne la parola. Alle prime luci del giorno di San Sebastiano alcune centinaia di contadini (non è dato sapere con esattezza se erano mille, come sosteneva Napoleone Colajanni o cinquecento come riferì a botta calda il Giornale di Sicilia), ma comunque una lunga processione di disperati «fra uomini e donne, muniti di zappe e altri arnesi campestri», si recò a San Giovannello, «volendo così far atto di proprietà collettiva di quelle terre. Intervenne la forza pubblica, soldati e carabinieri, che tentarono di sciogliere i dimostranti, ma inutilmente». La strage si consumò dentro il paese, dopo che i contadini avevano tentato invano di farsi ricevere dal sindaco Giuffrè ed erano stati fatti segno di gravi insulti da parte del segretario comunale.
Era mezzogiorno quando esplosero le prime fucilate, che i dimostranti scambiarono per i botti di San Sebastiano. A sparare per primo fu la guardia municipale Peppe Fuante. Seguì una scarica micidiale in cui si produssero «soldati, carabinieri e guardie campestri: in tutto una ventina di uomini di fronte ad oltre mille contadini armati di zappe. Non intimidazioni, non squilli di tromba, nulla che possa dar parvenza di legalità alla forza pubblica […] chiamata a far le vendette degli usurpatori». Alla fine si contarono 8 contadini morti e 26 feriti, 5 dei quali rimasero in vita solo per pochi giorni. Gli assassini ne uscirono illesi, senza nemmeno un graffio o una lieve scalfittura; «ed erano 20 gli aggressori contro 1000 aggrediti! Ciò sia a prova delle intenzioni dei poveri contadini…». Il 30 gennaio il caso di Caltavuturo approdava alla Camera dei deputati per iniziativa di Napoleone Colajanni. Il quale, in preda ad «un doloroso presagio», interpellando il ministro dell’Interno, esclamò: «Io non so se la Sicilia potrà ripresentare il fenomeno della guerra servile; so però che l’odio dei contadini contro i cosiddetti galantuomini è vivissimo; dovunque esiste il latifondo quest’odio è profondo. In Sicilia il pericolo delle ribellioni agrarie è permanente e, se non provvederemo, dovremo assistere a qualche risveglio veramente doloroso!».
Nel frattempo la rete organizzativa dei Fasci, faticosamente costruita da De Felice Giuffrida e Bosco, cominciava a qualificarsi ed estendersi non solo nelle città, ma anche nelle campagne e nelle zone minerarie.

 

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