La strage di Caltavuturo
(dal mio libro “Il miraggio della terra nella Sicilia post-risorgimentale, 1861-1894)
Era mezzogiorno quando esplosero le prime fucilate, che i dimostranti scambiarono per i botti di San Sebastiano. A sparare per primo fu la guardia municipale Peppe Fuante. Seguì una scarica micidiale in cui si produssero «soldati, carabinieri e guardie campestri: in tutto una ventina di uomini di fronte ad oltre mille contadini armati di zappe. Non intimidazioni, non squilli di tromba, nulla che possa dar parvenza di legalità alla forza pubblica […] chiamata a far le vendette degli usurpatori». Alla fine si contarono 8 contadini morti e 26 feriti, 5 dei quali rimasero in vita solo per pochi giorni. Gli assassini ne uscirono illesi, senza nemmeno un graffio o una lieve scalfittura; «ed erano 20 gli aggressori contro 1000 aggrediti! Ciò sia a prova delle intenzioni dei poveri contadini…». Il 30 gennaio il caso di Caltavuturo approdava alla Camera dei deputati per iniziativa di Napoleone Colajanni. Il quale, in preda ad «un doloroso presagio», interpellando il ministro dell’Interno, esclamò: «Io non so se la Sicilia potrà ripresentare il fenomeno della guerra servile; so però che l’odio dei contadini contro i cosiddetti galantuomini è vivissimo; dovunque esiste il latifondo quest’odio è profondo. In Sicilia il pericolo delle ribellioni agrarie è permanente e, se non provvederemo, dovremo assistere a qualche risveglio veramente doloroso!».
Nel frattempo la rete organizzativa dei Fasci, faticosamente costruita da De Felice Giuffrida e Bosco, cominciava a qualificarsi ed estendersi non solo nelle città, ma anche nelle campagne e nelle zone minerarie.