Fave, favalori e generali
La riflessione sabatina n. 16 di Pippo Oddo
A suggerirmi il titolo di questa “storia” è stato un ricordo d’infanzia che mi piace raccontare in omaggio, tardivo ma pur sempre commosso, alla memoria dell’ultimo favaloro del mio paese, la cui razza si estinse all’epoca della riforma agraria. Si chiamavano favalori, ma erano in realtà poveri diavoli che possedevano soltanto la zappa con la quale combattevano nella difficile trincea della sopravvivenza. Coltivavano fave, ovviamente, ma in campi altrui, concessigli di anno in anno, con contrattazione verbale revocabile in qualsiasi momento, dai cosiddetti gabelloti, affittuari di estesi latifondi e monopolisti del mercato dei soprusi e dell’usura.
Era, l’ultimo favaloro del mio paese, reduce di entrambe le guerre mondiali, curioso tipo di chiacchierone dal linguaggio arcaico intriso di altisonanti metafore militari non proprio in tono con la sua spaventevole magrezza che lo rendeva degno di fare la controfigura dello scheletro. Ma era un piacere vederlo infiammarsi come uno zolfanello nel raccontare episodi di vita vissuta al fronte, intramezzati da rustici combattimenti con le erbacce del campo che coltivava, le mosche, i pidocchi, i corvi che gli rubavano il pane nel “saccuni”, uno schifoso campiere che a maggio lo teneva d’occhio per impedirgli di addentare anche una sola fava, quel cappio da forca di suo figlio che non ne voleva «mancu a broru» di combattere con le fave e con lo scirocco che le faceva seccare.
Fanciullo, sui sette o otto anni, ebbi modo di ascoltarlo tante volte. Ma il ricordo cui accennavo è legato ad una festa di battesimo allietata da una montagna di mandorle tostate, calia (ceci abbrustoliti) e grosse cannate di vino spillato direttamente dalla piccola botte disposta in un cantuccio della stessa stanza dove si rosicchiava calia a suon di zufolo e d’organetto, con cinica noncuranza del piccolo festeggiato che strillava sconsolatamente. Il favaloro, per sua sventura completamente privo di denti, aveva poco da rosicchiare, però tracannava vino e parlava. Nelle grazie di Bacco, parlava più di un giudice povero, senza però mai discostarsi dall’argomento che, a quanto pare, era sempre quello negli ultimi giorni di aprile: fame, fame con la effe maiuscola, e tuttavia non disperata giacché, a suo dire, a difesa degli affamati cronici sarebbero presto scesi in campo, uno per volta, tre valorosi strateghi: il generale Fava, il generale Mazza e il generale Sulami. Chi fossero i tre prodi, lo sapevano quasi tutti gli invitati: i soli a ignorarlo eravamo io e mia sorella, che aveva tre anni meno di me. Erano colorite personificazioni dei verdi baccelli di fava, dell’arnese per battere alla svelta le prime spighe ingiallite di giugno, e delle dita esperte dei “sulamari” (altro modo di chiamare i morti di fame) che, razzolando come galline tra la polvere dell’aia, dopo che il grano era stato separato dalla pula, insaccato e portato via dai muli, cercavano grazia di Dio sin dentro i formicai.
Che piaccia o no, a questo punto bisogna prender commiato dal favaloro per rendere, spero, degno onore al generale Fava. Coltivata in quasi tutto il bacino del Mediterraneo fin dall’età del bronzo, la fava è stata per millenni architrave dell’alimentazione di molti popoli. Eppure in Egitto, dove attualmente se ne produce più d’ogni altra parte del mondo e se ne consuma persino a prima colazione (come ci ricordano i romanzi di Nagib Mahfùz), la fava non si inserì subito nel panorama produttivo agricolo: «Nel loro paese – si legge nel secondo libro delle Storie di Erotodo – gli Egiziani non seminano assolutamente fave; se crescono, crude non ne mangiano, né se ne nutrono dopo averle cotte: i sacerdoti non ne sopportano neppure la vista, ritenendo che si tratti di un legume impuro».
Lo stupore del padre della storia non poteva però spingersi più oltre di tanto. Vero era che nel suo paese e nella stessa Magna Grecia, fave se ne coltivavano tante, ma era notorio che i sacerdoti di Giove non potevano cibarsene e si astenevano persino dal guardarle. Attento com’era, Erotodo non poteva oltre tutto ignorare le analoghe proibizioni dei vecchi riti orfici e le note fobie di Pitagora che, inseguito dai nemici, non aveva esitato a lasciarsi catturare piuttosto che attraversare un campo di fave. Di fave lesse in Grecia si facevano grosse scorpacciate nel mese di antesterione (febbraio), in omaggio a Bacco e Mercurio per le anime dei defunti.
Le stesse usanze si riscontrano nelle antiche celebrazioni mortuarie romane. Per non parlare dei frati del monastero di Cluny che, costretti a mangiare una razione di fave al giorno, venivano autorizzati dal priore ad ingoiarne il doppio in occasione della commemorazione dei defunti, «perché potessero sostenersi meglio durante la lunga veglia funebre». Riti del genere sopravvivono fino ai nostri giorni: pietanze a base di fave se ne consumano ancora molte il 2 novembre in Italia, al sud come al centro e al nord. Dove non compaiono direttamente, le fave onorano la tradizione sotto forma di pesci o dolci, in modo non necessariamente mascherato, a giudicare dagli artistici baccelli di marzapane che la mattina del 2 gennaio, festa dei morti, i bimbi di Sicilia rinvengono tra i doni depositati nottetempo nel “cannistru” dai parenti passati a miglior vita. La fava dunque come tramite tra i morti e i vivi. Ne sapeva qualcosa un vecchietto del mio paese che, non potendosi permettere altrimenti il lusso di mangiare carne, teneva in tasca una fava larga legata alla punta di un laccio e, quando vedeva qualche gallina razzolare in un letamaio, gliela gettava in pasto (al riparo di occhi indiscreti) con la speranza che abboccasse come un pesce all’amo…
Né può essere motivo di meraviglia il fatto che si chiama fava, in talune regioni d’Italia, l’organo di cui più si vanta l’umano maschio. Fava portentosa, a sentire certi toscanacci, fava acquietaprurito, fava consolavedove, fava per ogni gusto, da salotto e da sagrestia, come quella immortalata dal pennello di un ignoto imbrattamuri di Arezzo: «Dio ci guardi dai fulmini e dai tuoni e dalla fava di don Calone!». Simbolo fallico sin troppo scoperto, la fava è quindi sinonimo della vita che, rinnovandosi, continua. Altro che simbolo di morte, come ci vorrebbero far credere certi studiosi che si aggrappano persino alle macchioline scure del candido fiore della fava con l’illusione di fargli reggere il peso delle loro folli elucubrazioni!
I contadini poveri di Sicilia hanno, al contrario, sempre considerato la fava un provvidenziale dono divino, una sorta di manna caduta dal Cielo, atta ad assicurare la sopravvivenza della specie umana persino in condizioni disperate. «Si sa per tradizione – scriveva nel 1898 il Cav. Uff. Salvatore Butera – che nel 1803 [anno di grande carestia] non pochi contadini di Vicari nell’epoca della seminagione delle fave, tenevano queste in un bagno d’acqua fresca per poco tempo, perché si rammollissero, indi le tagliavano a metta e così la parte superiore nella quale restava l’embrione la seminavano, l’altra metta la mangiavano per disfamarsi».
Per farla breve, neppure a Baucina (ridente paesino del Palermitano) può trovare mai credito la teoria che considera la fava simbolo di morte, con buona pace di Pitré che pubblicò questa curiosa credenza tutta baucinese: «Mettendo una fava entro un teschio e poi seminandola, le fave seminate produrranno fave molto cucivuli». Ora, senza voler mettere minimamente in discussione la veridicità di quanto ha scritto lo studioso palermitano, non può esserci ombra di dubbio che i contadini di Baucina ricorressero al macabro rito solo in casi estremi, e sempre animati dalla speranza di produrre fave di facile cottura, adatte a preparare il maccu, erede diretto della “puls fabata”, nota poltiglia di fave che i Romani offrivano in sacrificio a Giunone.
Macco, impareggiabile capolavoro di cucina povera, vanto delle massaie rurali di tutta l’Italia! Però, onestamente, è in Sicilia che la sostanziosa pietanza raggiunge una qualità d’eccellenza, capace di suscitare rare suggestioni gustative, ma anche visive e olfattive. Comunque preparato, con fave secche o verdi, con cotenne di maiale o assieme ad altri legumi (come nella migliore tradizione delle tavolate di san Giuseppe), il maccu siciliano è spesso insaporito dal finocchietto riccio, di montagna, come… la pasta con le sarde, stavo per dire. Ma perché importunare una squisitezza culinaria d’origine urbana avendo a portata di mano tanti piatti campagnoli col finocchietto che non temono il confronto con Sua Maestà, la pasta con le sarde? Penso alla frittedda di favette verdi, ai taglierini di casa con le fave che i devoti della Madonna del Furi la Domenica in Albis fino a pochi decenni addietro cucinavano nei campi attorno al santuario, in quel di Cinisi. Penso anche alla pasta con faviani e ricotta del Ragusano, alle fave pizzicate, e persino a quelle a cunigghiu del Palermitano, quando sono cucinate come Dio comanda: col finocchietto riccio, di montagna.
Che arma potente, però, la fava, direbbe la buonanima del favaloro. Non si possono contare i servizi da essa resi ai siciliani. Se, subito dopo l’unità d’Italia, i contadini di Sicilia osservati da Franchetti e Sonnino erano meno denutriti di quelli padani, e per di più nemmeno sfiorati dalla pellagra, qualche piccolo merito l’avrà pure avuto l’umile pianticella coltivata dai favalori. «La fava – scriveva nel 1902 il geografo Paolo Revelli – colla sua notevole quantità di materie azotate, costituisce non solo la base principale dell’alimentazione del contadino modicano, ma quasi generalmente la sola alimentazione».
Ma solo di quello modicano? In tutta la Sicilia fino ai primi anni sessanta, della fava (come del porco) non si sprecava nulla: con i germogli più teneri si rimediava una squisita insalata e, all’occorrenza, una minestra verde; e, in periodi di fame nera, si cucinava finanche la lupa, noto parassita della fava che i botanici chiamano Orobanche major. Gli stessi steli secchi, almeno dalle mie parti, erano fonte di riscaldamento domestico, alimento per forni, focolari e luminarie, combustibile industriale, se industrie si potevano chiamare le carcare, quelle rudimentali fornaci per la preparazione del gesso e della calce viva, o gli stazzuna dove si fabbricavano tegole e mattonelle di terracotta. La cenere degli steli divorati dal fuoco faceva le veci del sapone nelle diuturne “battaglie” al fiume delle lavandaie. Quest’ultima circostanza dovette impressionare non poco Goethe, considerato ciò che scrisse: «Lo stelo della fava si brucia e con la cenere che ne risulta lavano la biancheria. Di sapone non fanno uso».
Rimane però il fatto che nemmeno le fave sono esenti da nei: si credeva che, mangiate allo stato crudo, facessero venire i vermi. Ma, a parte questo piccolo inconveniente, cui quasi nessuno badava, le fave erano ritenute rimedio sicuro contro molti mali. Grosse scorpacciate di fave verdi erano consigliate a Castelbuono per combattere le febbri malariche recidive, a meno che non si preferisse masticare ciuffi di artemisia già posti dentro le scarpe nella stagione delle fave verdi. Il tumore alla milza non era poi male incurabile a Palermo, sempre che chi assisteva il paziente non provasse schifo a sfilare un rustico rosario con grani di fava già ammollati nell’urina di un coetaneo dell’ammalato, recitando nel contempo uno scongiuro noto alle fattucchiere. Persino le prescrizioni mediche a volte prevedevano (e prevedono ancora) l’uso di fave. Senza scomodare le ricette secentesche e i farmaci consigliati dal protomedico palermitano Alaimo (a base di cimici e bucce di fave verdi) è un fatto che ai sofferenti di diarrea tutt’oggi si consiglia di mangiare fave lesse, non già da ciarlatani, ma da medici seri, fedeli al giuramento di Ippocrate.
Potrei chiuderla qui, se non dovessi invitare i lettori a quella chiassosa, tradizionale abbuffata collettiva di fave che da alcuni lustri si chiama “Sagra” (delle fave, manco a dirlo) e che si ripropone puntualmente ogni anno nell’esclusiva cornice madonita della piazza di Isnello in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo. E, già che me ne ricordo, non vorrei venir meno al dovere di segnalare anche la Sagra del macco, di cui mena vanto l’operosa città di Raffadali, nell’Agrigentino.
di Pippo Oddo