Dolci e dolcezze di Sicilia – Parte I
La riflessione sabatina n. 19
Un motto tardo-latino recita: Dulcem rem fabas facit esuries tibi crudas. La fame ti trasforma le fave crude in una cosa dolce. È vero. Non c’è cosa più o meno commestibile che non acquisti sapore di squisitezza quando si ha fame. E la storia dell’umanità non ha mancato di dimostrarlo. Per portare un esempio di cui molti viventi si possono ancora ricordare, a Roma nell’autunno del 1943 «c’erano donne che frugavano tra le immondizie dei cassonetti per trovare foglie e torsoli da cucinare»: parola di Miriam Mafai. «Si masticavano a lungo, le castagne secche, le “mosciarelle”, o le carrube. La fame aveva un sapore dolciastro».
Ma le cose dolci, o cosi ruci, in Sicilia sono sempre state sinonimo di dolciumi. E, a memoria d’uomo, mai siciliano ha scambiato le fave crude per cosi ruci. Un ruolo vicario dei dolci è stato caso mai assolto dalle fave abbrustolite, meglio note come favi caliati. I contadini ne facevano grosse scorpacciate nelle serate d’inverno attorno al focolare, mentre un anziano della famiglia dotato di buona favella li intratteneva raccontando cunti di tesori incantati, re, fate, regine, principi e principesse o magari faceva rivivere le gesta dei Paladini di Francia, Orlando, Rinaldo, Guerin Meschino, Rizieri, la bella Angelica…
La calia (fave e ceci abbrustoliti) faceva inoltre la sua immancabile comparsa assieme allo scacciu (mandorle e nocciole tostate) e ai confetti nelle feste di nozze o di battesimo delle famiglie povere. E continua tuttora ad accompagnarsi alla simenza (semi di zucca essiccati) nelle feste patronali, senza mai confondersi con i prodotti del cubbaitaru (torrone, petrafennula, gelato di campagna, ecc.) che pure fanno bella mostra sulle bancarelle ovunque si festeggi un Santo.
Naturalmente i popolani non facevano mai passare la festa senza rifarsi il palato con un pur minuscolo pezzo di cubbaita che il venditore consegnava sempre rigorosamente avvolto nella carta oleata. Astenersene sarebbe stato come non aver rispetto per il Santo e per le sacrosante aspettative di guadagno del cubbaitaru. Molti però potevano portare a casa solo poche briciole di quel dolce, quando non dovevano accontentarsi del proverbiale scrusciu di carta senza cubbaita.
La cubbaita, che il Vocabolario Siciliano-Italiano di Antonino Traina (1868) presenta come «confettura o torrone o mandorle e mele cotto», in Sicilia si consuma da parecchi secoli. A riprova di quanto ne sono stati ghiotti nel passato i Siciliani, basti ricordare che nel Cinquecento nella Contea di Modica fu istituito un apposito balzello per tassare i guadagni dei cubbaitari. Ma già allora si conoscevano moltissimi tipi di dolci e tanti altri sono stati inventati nel frattempo.
Il loro numero nessuno è mai riuscito a stabilirlo con esattezza. Giovanni Coria, che pure ha pubblicato ben 250 ricette di dolci, ammette che la sua raccolta «è solo un tentativo, una brevissima introduzione ai tanti volumi che di essi si potrebbero scrivere». Ed aggiunge: «Di alcuni mi è stato impossibile trovare la esatta ricetta: così delle caniate di Regalbuto; dei cassateddi di ficu di Mazara del Vallo; dei sampiroti di San Pier Niceto, delle tabelle (biscotti rotondi di 15 cm di diametro) di Santa Maria di Licodia; dei viscotta di meli che si preparano nella Sicilia occidentale per la festa di S. Michele (29 settembre), e raffiguranti l’Arcangelo; i pantofuli di pistacchiu dell’agrigentino e nisseno; i masticutté di Assoro nell’ennese. E questi solo per citarne qualcuno».
Marinella Fiume Giannetto si sofferma sui contenuti culturali della pasticceria sacra come di quella profana. «La grande varietà morfologica dei dolci siciliani – sostiene opportunamente –, la ricchezza figurativa, la pregnanza simbolica si spiega riportandosi a una tradizione lontanissima che affonda nella preistoria le sue origini e che risulta da un intreccio sincretico di tradizione pagana e rivoluzione cristiana, di patrimonio magico-rituale di una società agro-pastorale e di sconvolgimenti socio-politici di vasta portata storica». Movendo da queste considerazioni, l’autrice coglie anche il rapporto che lega quella che, citando Antonino Uccello, lei chiama «la raffinata e fantasiosa dolceria siciliana, patrimonio dell’aristocrazia» alla parallela produzione popolare o vastasa, «intenta a supplire con la fantasia alla congenita scarsità delle risorse e che non differisce dalla prima che per l’arricchi¬mento di preparazioni-base comuni a tutte le classi».
Ora, le distinzioni e gli accostamenti sono necessari in ogni discorso analitico; finiscono però spesso per scivolare nello schematismo, come la stessa Fiume Giannetto riconosce con grande onestà intellettuale. A noi convince poco, per esempio, la riproposizione della classica dicotomia “dolceria sacra – dolceria profana”. Siamo invece del parere che la stra¬grande maggioranza dei dolci, se non proprio la totalità, affondi le radici nella sfera del sacro: è sicuramente così per la cassata che un tempo simboleggiava la Pasqua (chiamata perciò Pasqua di li cassati) e che oggi si prepara in ogni periodo dell’anno. Così anche per le sfinci che prima si consumavano solo in occasione della festa di San Giuseppe. Non sfuggono alla regola nemmeno il cannolo e la pignolata, già dolci tipici del Carnevale. Il periodo carnevalizio è infatti tutto interno al calendario liturgico; e i suoi precedenti più antichi vanno forse ricercati nei Saturnali di classica memoria, feste solenni romane in onore del dio Saturno.
La dolceria profana, nella misura in cui esiste, quando non è di derivazione sacra, è un suo sottoprodotto. È il caso dei pipatelli, consumati la domenica sera dalla borghesia palermitana del passato. Erano infatti, per dirla con Nicola Volpes, «biscotti ottenuti impastando rimasugli di dolci di ogni genere». Tradivano pure un’origine sacra le nievuli (che un tempo si vendevano nelle strade della Capitale) dato che erano «cialde simili alle ostie abbrustolite e leggermente zuccherate».
Si obietterà che certi dolci tuttora prodotti e un tempo tipici di alcuni riti di passaggio (nozze e battesimo), come i tetù e le taralle, sembrano sfuggire al mio assunto. Ma a ben riflettere, a parte il fatto che essi – come del resto i confetti – caratterizzavano momenti decisivi della vita, solitamente scanditi in tutte le culture da pratiche magico-religiose, i tetù erano (e continuano ad essere) anche specialità della “festa” dei morti; le taralle una squisitezza d’origine ebraica nella cui preparazione entra il succo di cedro, frutto sacro che gli Ebrei solevano tenere in mano entrando nel Tempio.
I gelati e le caramelle sono probabilmente i soli prodotti tipici dell’arte dolciaria profana, anche se non è da escludere che potessero avere qualche rapporto che non conosciamo con la sfera sacra nel momento della loro prima preparazione. Certo è che sono figli della cultura araba, tenuto conto che vengono manipolati entrambi con lo zucchero che, com’è noto, fu importato in Sicilia dagli Arabi. Non c’è dubbio inoltre che, almeno nei centri agricoli, il gelato un tempo si mangiava sotto forma di pezzo duro solo in occasione delle feste del Santo Patrono. Le caramelle, prodotto squisitamente urbano, si vendevano in mezzo alle strade. È, in particolare, il caso di quelle d’artìa che il caramillaru preparava «utilizzando come forme certe striscioline di carta arrotolata». Ebbene, saranno state pure prodotti della dolceria profana, parto della fantasia creativa di poveri diavoli che facevano salti mortali per rimediare il pranzo e la cena… ma di fatto il venditore sentiva il bisogno di farsi il segno della Croce appena vendeva la prima caramella della giornata.
Origine sacra avevano pure i dolci nati all’epoca degli dei falsi e bugiardi. L’esempio più noto è quello delle famose focacce a base di farina, sesamo e miele (mylloi), raffiguranti le pudende femminili, che i Siciliani offrivano in grandi canestri a Demetra e Persefone in occasione delle Tesmoforie, accompagnando l’offerta con gesti osceni e linguaggio licenzioso. Curiosamente questo dolce, almeno nella forma, ma con ingredienti diversi (pasta di mandorla, crema d’uovo e marmellata d’albicocche), è stato riprodotto per secoli dalle suore della Badia del Cancelliere di Palermo con il nome di feddi di cancilleri. E si noti che nella capitale dell’Isola si scrive “feddi” (fette) ma si legge natiche, chiappe.
I mustacei dell’antica Roma, la cui ricetta (a base di farina, cacio, mosto, anice, cimino e scorza d’alloro) ci è stata tramandata da Catone nel De Agricoltura, furono creati per solennizzare le nozze di Saturno. Il loro nome ancora oggi riecheggia nel sicilianissimo mustazzolu, caratteristico delle feste di Natale, nonché «uno dei dolci tipici della nostra isola che può assumersi a simbolo della lunga durata nelle sue strutture di base, pur nelle modificazioni e innovazioni sia delle tecniche di manipolazione, che delle valenze rituali e, in generale, di temperie culturali».
Non rimane più traccia, invece, della placenta, descritta da Catone e avente come ingredienti essenziali farina, cacio e miele «fragrante di timo ibleo». Ma un dolce siciliano evocativo delle antiche focacce dolci si prepara ancora: la fuàzza di purtuisa. E il miele siciliano continua a dare fragranza e sapore a molti dolci natalizi, a cominciare dalla favuzza, che nel nome e nella forma allude al fallo. Rimandano pure al sesso, sia pure indirettamente, altri dolci a base di farina e miele destinati ai bambini. Non per caso alle bambine si regala (o meglio si regalava) la pupa e ai maschietti lu cavaddruzzu (cavallino).
Moltissimi sono i dolci devozionali con il miele. In proposito vale la pena di riportare le parole di Sebastiano Burgaretta, autore di un pregevole saggio su api e miele degli Iblei: «A Natale, con l’inizio dell’anno liturgico si usa tutt’ora preparare il torrone di mandorla, la più pregiata della quale è quella di Avola, che appunto si presta benissimo alla confezione di confetti e di torrone a base di miele. Leonardo Sciascia ha scritto: “Con tanta abbondanza di mandorle, ad Avola prospera la produzione dei confetti e del torrone. Il quale è prodotto in due tipi: bianco e caramellato, più docile al coltello e ai denti il primo, più duro e quasi vetrino il secondo […]. Forse nel primo ha parte più importante il miele, che ad Avola se ne ha di ottimo”… A base di miele si prepara, ad Avola e dintorni, anche la ghiugghiulena, un impasto di sesamo e miele. Biscotti di farina e miele si preparano in tutto il Siracusano per la ricorrenza di Natale».
Ad Avola, a detta dello stesso Burgaretta, hanno forma della lettera S oppure di spirale e sono chiamati mustazzola, a Noto pasti ri meli, a Sortino piretti, giacché sembrano piccole pere con all’interno frammenti di mandorla abbrustolita. A Noto e nel Modicano si preparano rami ri meli, dolci dalla forma di ramoscelli fatti con farina e miele. Non è superfluo aggiungere che questi dolci (che peraltro trovano precisi riscontri nel Palermitano nei cosiddetti “miliddi” e nei “pupiddi nanau” che si preparano in occasione della festa dei Santi Cosma e Damiano) si danno ai bambini sotto forma di strina, strenna di Capodanno. I mustazzola ri meli sembrano discendere direttamente dai dolciumi immortalati da Teocrito nell’idillio XV, meglio noto come “Le Siracusane”, i cui versi sono stati tradotti in siciliano dal poeta netino Gaetano Passerello:
‘Nta li maiddi tanti fìmmineddi/ ‘mpastanu ccu farina rosi e ciuri/ ccu ogghiu e meli e tanti pampineddi/ e tutti a gloria di stu gran Signuri.
(Nelle madie tante donnette / impastano con farina rose e fiori, / con olio e miele e tante erbette aromatiche, / e tutto a gloria di questo gran Signore).
Nello stesso periodo a Modica si preparano i nucàtulì, con miele, farina, fichi secchi e noci tritate avvolti in una sottile sfoglia di pasta. Altro dolce natalizio a base di miele è la pignuccata, fatta con farina e uova. Altrettanto tipici del Modicano sono i dolci di Natale anch’essi al miele e conosciuti citrata e aranciata. Nella vicina Ragusa si usa preparare le palmette, «dolci a base di farina mescolata con mandorla tostata e triturata e miele. Si fanno dei romboidi un po’ schiacciati che vengono cotti al forno».
C’è, in tutti i dolci natalizi a base di miele, un’unità significante di un comune sistema di comunicazione non verbale. Nel caso dell’aranciata e della citrata di Modica ciò che più colpisce, oltre alla proverbiale durezza, è la forma cilindrica, simbolo fallico per antonomasia. Ancora più sfacciato è il sottinteso erotico della chiavi di san Petru (in pasta di miele o impastata con altri ingredienti) che si mangia il 29 giugno a Palermo, nel Partinicese, a Sciacca e in altri comuni siciliani. «Vi sono chiavi di mezzo metro, anche d’un metro, che si portano sopra tavolette», scriveva Giuseppe Pitrè. «La gridata per lo spaccio delle chiavi è tradizionalmente questa: Chi l’haiu bedda grossa la chiavi… haiu la chiavi grossa». E se il venditore ambulante esaltava oltre ogni credere la grossezza della chiave, il fidanzato era sempre lieto di regalarla alla futura sposa «come dovere di galateo amoroso».
Per chiuderla momentaneamente qui, persino certi dolci fìtomorfi come le palmette di Ragusa, evocativi della pianta sotto cui si rifugiò Maria Vergine durante la fuga in Egitto, ammiccano a certe dolcezze pruriginose. Sì, perché la palma è simbolo di fecondità. Non a caso in Puglia un dolce a forma di palma è donato dal fidanzato alla fidanzata, la quale calcola la portata dell’amore del promesso sposo basandosi sull’altezza del dolce ricevuto. Ed è forse privo di significato il fatto che in Sicilia alla fine del corteo nuziale, le amiche offrivano abbondanti cucchiate di miele alla zita? Certamente no, considerato che nelle comunità siculo-albanesi era la suocera ad aspettare all’uscio la nuora per porgerle un cucchiaio di miele, quel provvidenziale «dono celeste della rugiada» di virgiliana memoria, simbolo di vita e di morte, talismano infallibile di rigenerazione e continuità della specie umana.
di Pippo Oddo
Palermo 22 febbraio 2012