Il pane e il ciclo della vita
di Pippo Oddo
Eterna allegoria della vita, nella Sicilia arcaica il pane scandiva l’esistenza umana dal primo vagito all’ultimo respiro. Nulla era però più aleatorio, per i poveri, del diritto a quel pane quotidiano che Gesù in persona aveva insegnato a chiedere al Padre Eterno. Sicchè ogni parola, ogni esortazione era finalizzata alla conquista della grazia di Dio. «Il memento mori che il missionario intona giornalmente ai cristiani — notava nel 1876 Guastella —, era cambiato dai nostri antichi in un motto proverbiale terribilmente preciso: Ni porta pani a la casa? Massima che applicata rigorosamente interdiceva ogni miglioramento materiale, sia pubblico che privato, ma serviva a impinguare le rendite delle famiglie».
Ora, se portare pane a casa significava per alcuni accumulare avidamente «roba», per moltissimi altri equivaleva a mangiare, attutire i morsi della fame, nulla di più. Altro che «impinguare le rendite delle famiglie»! Ma tutti, allora, ricchi e poveri, crapuloni e morti di fame, avevano un sacro rispetto per il pane: rispetto esagerato, forse, patetico addirittura, per quanti oggi subiscono il fascino dei vari mulini bianchi. «Il pane è la grazia di Dio per eccellenza», ammoniva Giuseppe Pitré: «e non si posa nè presenta mai sottosopra, che è malaugurio, nè si taglia da quel lato (sôlu), che è disprezzo alla Provvidenza di Dio che ce lo manda, nè si segna o s’infilza col coltello, che è ferro e quindi maledetto; ma si taglia senz’altro, e quando si ha ad infilare dentro il coltello si bacia prima, si benedice poi e si protesta che è grazia di Diu. Quindi se il pane cade per terra, nel raccoglierlo, si bacia, dicendo: grazia di Diu. Se mangiando ne cascano per terra delle briciole e non si ha cura di raccattarle, si dovranno raccattare poi con le ciglia, morti che saremo. E come grazia di Dio, si giura su di esso toccandolo: Pi sta santa grazia di Diu! e se ne vediamo cadere o buttare un bocconcino per terra, che non si voglia o non si possa altrimenti mangiare, ci affrettiamo a raccoglierlo e a conservarlo in un bucolino pur di non farlo calpestare coi piedi. Il Signore potrebbe farci desiderare quel boccon di pane».
L’osservanza di almeno uno di questi riti in anni a noi molto più vicini di quelli in cui
scriveva Pitrè è attestata autorevolmente da Antonino Buttitta: «… il mio primo ricordo del pane è legato alla raccomandazione che mi faceva spesso mia madre di non capovolgerlo posandolo sulla tavola. Era un pane dalla forma grande e rotonda tipica di quel mondo contadino di cui nella mia giovinezza il paese dove sono nato era ancora un esempio. Mia madre diceva che rovesciare il pane era di malaugurio. Io pensavo che questa credenza, del resto allora comune, fosse semplicemente suggerita da un desiderio di ordine. Era così. A un livello più profondo tuttavia di quanto io allora sospettassi. In realtà capovolgere il pane, per il suo contenuto simbolico, era come invertire l’ordine del mondo da esso rappresentato, convertire il cosmos nel caos, dunque scatenare il negativo nelle sue forme più distruttive».
Se così era, la sacralità del pane non poteva restare estranea ai momenti critici della vita, in quei riti di passaggio studiati nei primi decenni del Novecento da Arnold Van Gennep, partendo dal presupposto che ogni cambiamento nella situazione di un individuo «porta seco azioni e reazioni tra il profano e il sacro, azioni e reazioni che debbono essere regolamentate e sorvegliate, affinché alla società generale non arrechino né molestia né danno». Sotto quest aspetto, la documentazione folklorica tramandataci dai raccoglitori dell Ottocento ci dà un’ulteriore conferma, ove ce ne fosse ancora bisogno, della funzione segnica del pane, elemento di un sistema metalinguistico in cui si riassumono bisogni nutrizionali, ansie, speranze, sensi di colpa, strategie di sopravvivenza volte a sconfiggere la potenza del negativo
nella storia e lo stesso potere nullificante della morte.
Il pane (azzimo in questo caso) era chiamato in causa immediatamente dopo il
concepimento di un nuovo individuo: «Il protettore delle pregnanti è, in molti comuni, S. Francesco di Paola» scriveva nel 1879 Giuseppe Pitrè. «A lui si raccomandano le donne, e da lui sperano una buona gravidanza e un miglior parto. A renderselo propizio gli fanno un viaggio ogni venerdì, nel primo dei quali, entrate in chiesa, si fan benedire addosso il cordone del Santo, e dare, previa un’elemosina, due fave benedette, e poche ostie benedette, con l’immagine del Santo, e una piccola candela di cera, pur essa benedetta, alla quale in forma spirale attorcigliata
una strisciolina stampata che dice: Ora pro nobis, Sancte Pater Franciscu de Paula. Il cordone si metterà durante la gravidanza, la candela si accenderà nelle doglie del parto, quando l’intervento celeste sarà necessario; le fave e le ostie si mangiano per devozione».
Ai tempi di Guastella a Modica si tramandava una leggenda secondo la quale una donna povera che, nell’imminenza del parto, aveva invocato l’aiuto della Madonna della Catena, fu dalla misericordiosa vergine assistita nel momento fatidico e per di più provvista di «pane, pannolini e gioie». Nella stessa città, per non inimicarsi le padrone di casa (esseri ambigui e vendicativi che dopo il parto prendevano in consegna i neonati), si usava mescolare la placenta al sale e alla mollica di pane, prima di seppellirla sotto un masso.
Subito dopo il parto nel Messinese si soleva regalare alla mammana denaro, le forbici «cogli anelli d’argento» con cui era stato tagliato il cordone ombellicale, la candela che l’aveva bruciato, l’asciugamani in cui era stato avvolto il neonato, un gomitolo di refe «venti volte più grosso di quello di quello ond’ella s’era servita per la legatura del cordone» e, dulcis in fondo, «un grossissimo pane».
Ancora più curiosa era l’usanza di Milazzo relativa al battesimo: «Prima che il bambino fosse tratto di casa per l’altare, un buccellato veniva offerto alla levatrice, la quale deponendolo sul letto della puerpera, sospendeva sulle braccia il neonato orizzontalmente, e cullandolo su quel pane esclamava:
Iu, figghiu, ti crisciu
pri sti quattru cantuneri;
chi cc’è l’Ancilu Gabrieli,
cu lu pani e cu lu pisci.
Ecco una benedizione, mediante la quale il bambino farebbesi grande della persona, ben nutrito di pani e di pesci: benedizione quattro volte ripetuta, ma di volo, affinché lestamente si potesse la pregnante ghermire e far suo il vagheggiato pane …».
Al passaggio del corteo con il battezzando, le comari si affacciavano davanti all’uscio e cominciavano a spargere sulla strada e sullo stesso bambino generose manciate di frumento per augurare alla creaturina un avvenire di prosperità e abbondanza. Assieme al grano a Misilmeri si gettavano anche briciole di pane. All’uscita dalla chiesa a spargere frumento, ma anche nocciole, ceci abbrustoliti, fave, confetti, monetine, erano in molti luoghi i padrini.
E il pane continuava a fare la sua parte anche durante il puerperio. «Mezzi buoni ad
accrescere la scarsa secrezione del latte — scriveva Pitrè — sono lattuga cotta, indivia con la pasta, sesamo nel pane, pesce cotto, pasta incaciata, con molta dell’acqua nella quale fu bollita (Palermo), pane di sesamo inzuppato, appena uscito di forno, in vino, pasta con ricotta e con cipolla soffritta e talvolta acqua mista a lievito (Mazzara e Raffadali), ortica bollita (Nicosia), e non so che altri cibi; ma quando il latte ha da venir meno, verrà meno con tutte le lattughe e le cipolle di questo mondo. E se vien meno, bisogna fare il possibile per riaverlo abbondante e proseguir l’allattamento». In tal caso un rimedio efficace può essere il pane delle sette Grazie. Una parente o una vicina che s’interessa della purpurea «va pel paese in cerca di sette donne che si chiamano Grazia, e domanda a ciascuna un pezzetto di pane. Indi cuoce questi pezzettini, e mentre li cuoce recita un’avemaria alla Madonna delle Grazie; e li dà a mangiare alla puerpera, la quale in quel momento deve alla sua volta recitare la medesima avemaria. Il latte aumenta». Nella
Contea di Modica alle sette Grazie si rivolgeva la stessa puerpera e, anziché pezzetti di pane, chiedeva un pugno di farina con cui poi preparava una focaccia senza sale che mangiava caldissima, appena sfornata. Ma quand’anche fossero risultati inefficaci questi rimedi, se ne potevano cercare altri ritenuti infallibili. Uno sperimentato a Nicosia prescriveva che una comare della nutrice «travagliata da agalassia» le portasse, a sua insaputa, due panini e un po’ di vino, e il latte sarebbe venuto subito. Un altro, collaudato con successo a Milazzo, era un po’ più
complicato ma, a detta di un autorevole informatore di Pitrè, non poteva fallire:
La donna medesima vada per case diverse, e chieda in ciascuna un tozzo di pane; vada in una 14ª, chieda una pentola; in una 15ª, un treppiede; in una 16ª, un po’ d’olio; in una 17ª, un po’ d’acqua; in una 18ª, della legna; in una 19ª uno zolfanello. Appiccato il fuoco, cotti i 13 tozzi di pane, ella li mangi per intiero, e si ponga 13 bocconi sul letto. La Madonna delle Grazie in premio di tanta umiltà le sarà larga di dolcissimo latte.
Insomma, la povera agalattica doveva mobilitare tutto il vicinato per ritrovarsi le poppe piene. Ma si trattava di un rimedio tutto sommato moderno, visto che bisognava procurarsi anche uno zolfanello, diavoleria che nella Sicilia interna fece la sua prima comparsa negli anni quaranta dell’Ottocento. Prima di allora la cosa migliore da fare era affidarsi alle cure delle «medichesse» contadine, che di medicina empirica se ne intendevano e come!, a voler credere a Guastella:
Quella donna intende liberarsi dall’infiammazione alla ghiandola mammaria, che noi chiamiamo pilu a la minna? Metta un po’ d’acqua in un vaso, faccia bevere un gatto, indi beva alla stessa. Vuol preservarsi da siffatto male? Beva tre sorsi di quell’acqua, nella quale è stato sciolto il lievito mentre si manipola il pane.
Ma il lievito era un toccasana anche per altri mali. Bastava metterne un po’ su «una
foglia (niente più niente meno) di ruvettu di S. Franciscu», per guarire il pannarizzu, ossia l’ascesso. Le congiuntiviti acute si curavano applicando alle tempie «qualche lumacone pesto mescolato con lievito». La cura della tonsillite prevedeva, almeno a Salaparuta, applicazioni alla parte gonfia e dolenti di «lievito spalmato sopra una pezzolina».
Se miracoloso era il lievito, ancora di più lo era il pane, specialmente quando veniva
preparato in onore dei Santi. Rinviando questo aspetto al prossimo capitolo, è appena il caso di accennare al grande uso che un tempo si faceva di picate (cerotti primitivi di mollica di pane e sale) nelle lesioni violente, che però si curavano anche con crusca impastata con acqua e aceto o addirittura — ma era il caso, a quanto pare, solo di Cefalù — con la propria urina.
Nessun’altra cosa ha mai eccitato tanto la fantasia umana quanto il pane. I bambini
giocavano a Pani caudu o a lu Cudduruni, due giochi che vale la pena di descrivere prendendo a prestito le parole di Pitrè.
A Pani caudu
Otto fanciulli si contano e, secondo la sorte, quattro restano appuzzati, quattro no. Acceso un gran fuoco (vampa), i quattro appuzzati vi si mettono attorno; gli altri si allontanano e vanno a nascondersi. I primi buttano sul fuoco un sasso per uno, che rappresenta il pane da mettersi in forno, e gridano: Pani caudu! Allora i rimpiattati sbucan fuori correndo verso il finto forno; ma i fornai la danno a gambe, per non farsi cogliere da essi. Chi è colto dee portare a cavalluccio sino al forno il compagno che l’ha acchiappato al grido l’Aceddu ti lassa! Nell’altro partecipano cinque bambini e non si accende nessun fuoco, ma è altrettanto divertente:
A lu Cudduruni
Un fanciullo mette a terra una pietra, che copre di terra rappresentando una focaccia messa a cuocere sotto la cenere (cudduruni). Altri quattro fanciulli si mettono a custodirla facendo ufficio di cani. Tutti gli altri si dispongono in cerchio tenendosi per mano. Il fanciullo che ha coperto la focaccia, volendo assicurarsi che sia cotta, chiede a quei della ruota se per caso vi sian dei cani, e quelli rispondono negativamente. Entrato però nel circolo, i quattro che stanno a guardia cominciano ad abbaiare, e lo inseguono; ond’egli fugge dando dei calci.
Ma se il pane era abbastanza presente nei giochi fanciulleschi, non lo era altrettanto
nella vita reale dei bambini che a volte si alimentavano con il latte materno fino all’età di tre o quattro anni. A Villafrati ancora negli anni cinquanta circolava una poesia popolare che accennava a questa circostanza. Il protagonista era u Bambineddu, Gesù bambino, il quale piangeva perché voleva il pane e la Madonna, profondamente umana, gli rispondeva:
Zittuti figghiu,
ca ora ti pigghiu:
pani nun ci nn’è,
ti rugnu a nnennè.
Nella contea di Modica il figlio del contadino appena compiva i quattro anni, andava in campagna a custodire la roba, «cioè la giucca [il mantello del genitore], la sacchina col pane, la scodella, il barilotto, e un paio di larghe bisacce». Queste ultime durante la notte assolvevano alla funzione «di materasso e di coltre». Il pane portato da casa non sempre bastava per l’intera settimana. Il padre perciò lo razionava e invitava il figlio a recuperare qualche frutto. D’inverno, quando sugli alberi non c’era nulla da raccogliere, il bambino cercava di entrare nelle grazie del
padrone presso il quale lavorava il padre per ottenere un pezzetto di pane e ciò che avanzava dalla sua colazione. Cresceva dunque col preciso presupposto culturale che per sopravvivere bisognava farsi furbo fermandosi «a quel precisissimo punto, ove la galera si rasenta senza toccarla».
Divenuto adulto, era inevitabile che facesse debiti. Ma anche questa circostanza poteva esser sfruttata per procurarsi la grazia di Dio, magari offrendo al creditore di mietergli un campo, «col pane e col vino, s’intende, e col diritto della spigolatrice, s’intende benissimo», con il diritto cioè di portarsi dietro una donna della famiglia che spigolasse mentre lui mieteva.
Persino nell’istituto del fidanzamento il pane aveva un proprio significato. Ma solo
simbolico? No davvero! , almeno ad Alia. «Dopo la formale richiesta di matrimonio e relativo appuntamento — scriveva Ciro Cardinale nei primi decenni del Novecento —, al fidanzato incombe l’obbligo di mantenere la promessa sposa e perciò questa riceve dall’altro una pagnotta al giorno».
Curiosissime erano le usanze nuziali degli Albanesi di Sicilia. Tra le testimonianze
riportate da Pitrè la più interessante è quella ricavata da uno scritto dell’abate Leanti nel 1761: Entrati appena, egli dice, in chiesa gli sposi, seguita la breve cerimonia del reciproco consenso, viene loro presentata a mangiare per mano del parroco una zuppa di pane e vino: quindi cinti ambedue il capo di una ghirlanda di alloro e coperti di un gran velo, girano in tondo tre volte insieme col mentovato parroco e testimonj, che quivi chiamano padrini: e nelle feste sposalizie della bassa gente oltre alla surriferita funzione, è solito, che lo sposo stranamente vestito, appeso al destro fianco un pane formato a cerchio in forma di corona, che buccellato nominano i Siciliani, vada a prendere la sposa, col numeroso seguito di congiunti ed amici unito a quello di essa sposa, l’accompagni in allegre alternate armonie sino alla porta della chiesa. Al passaggio degli sposi i parenti e gli amici gettavano grosse manciate di frumento, legumi, briciole di pane. Ma l’uso di lanciare addosso agli sposi cereali non era esclusivo delle popolazioni albanesi, come dimostra una poesia popolare raccolta a Camporeale:
E quannu di la Crèsia turnamu
Lu populu nni jetta frumentu.
Ad Assaro si buttava con una mano frumento e con l’altra sale. A Borgetto era la
suocera a lanciare sulla sposa il grano. A Siracusa cadeva sul corteo una grandinata di sale e farro. «In Licata col frumento si augura agli sposi prole femminile; ma con l’orzo si fanno più lieti auguri, prole mascolina». A Modica non si faceva di queste distinzioni ma, come nell’antica Roma, assieme al frumento si gettavano anche noci, «costume antichissimo, il quale vale ad augurare la futura agiatezza alla nuova famiglia, e a rimuovere gli auguri sinistri: Dî avertant».
Usanze come queste non potevano certo passare inosservate ai viaggiatori stranieri,
anche se non sempre essi annotavano quanto cadeva sotto i loro occhi con la stessa dovizia di particolari con cui Bartels descrisse una cerimonia nuziale siciliana tardosettecentesca:
Il padre dello sposo entra da solo, indirizza un complimento alla giovane e la porta per mano, tutta addobbata, al promesso sposo che l’accoglie sulla porta, mentre dall’alto viene sparso su di loro grano, pane e sale, in segno di fecondità e ricchezza. La suocera della sposa, gli mette all’occhiello, assicurandolo con nastri, un biscotto di pasta fine, simbolo del nutrimento che dovrà procurare alla moglie. In chiesa, intorno alla coppia, il turibolo dell’incenso descrive una croce. Il sacerdote infila all’indice degli sposi gli anelli, d’oro per lui, d’argento per lei e il padre per tre volte scambia gli anelli tra loro. Lo stesso avviene per le corone di alloro, di olivo, di rosmarino e di fiori che gli sposi ricevono sul capo e sulle quali il sacerdote posa poi un velo di garza bianca; gli sposi si tengono per il mignolo della stessa mano, reggendo nel contempo una candela accesa. Una tavola imbandita è già pronta nella chiesa stessa; il sacerdote spezza il pane, lo inzuppa nel vino, ne fa mangiare tre pezzetti agli sposi, rompe poi il bicchiere per mostrare che la felicità è fragile. Infine gli sposi formano attorno alla tavola imbandita una sorta di ronda con il sacerdote e i testimoni, e danzando gli girano attorno tre volte. Poi, in corteo e cantando ci si reca verso la casa dello sposo.
Le nozze contadine non si celebravano mai nel mese di agosto perché — come
ammoniva un vecchio adagio — la sposa non si sarebbe goduta la curtina, cioè l’intimità dell’alcova (la zita austina nun si godi la curtina). Ma i matrimoni contratti subito dopo un buon raccolto si festeggiavano nell’aia, ballando ’u chiovu, ’a fasola, ’a cuntradanza e altri balli contadineschi intermezzati da lodi a Dio e alla Madonna. L’eco di quest’antica usanza ci giunge attraverso una caratteristica pantomima campestre che da Petralia Sottana è stata portata in tutto il mondo: il Ballo della Cordella. Nella pittoresca cittadina madonita nel mese d’agosto la manifestazione è preceduta da un corteo nuziale in costume, aperto dagli sposi a cavallo di una
mula bianca, che sfila per il corso a suon di zufolo, marranzano e tamburello. Si conclude in un’aia (attrezzata di pagghiaru) con balli attorno a una lunga pertica con ventiquattro corde variopinte, cui si aggrappano dodici coppie di danzatori di straordinaria bravura. «Il Ballo della Cordella e il Corteo Nuziale sono quanto di più originale abbia mai visto» ebbe a dire nel 1960 il regista Steve Previn che, con una equipe di trentacinque tra operatori e tecnici, riprese le scene per inserirle in un documentario sul folklore nel mondo. E in effetti le due manifestazioni sono
davvero affascinanti. Inneggiano alla vita e all’amore fecondo, rendono omaggio a Cerere, la dea del pane, ancorché invocata come Madonna dell’Alto.
Madonna di l’atu! Mi raccumannu
Ca senza lu to aiutu mi cunfunnu;
sapienza sempri t’addumannu
quantu iu parru beni a tuttu munnu.
Così di solito esordisce il conduttore del ballo, raccomandandosi alla Madonna
dell’Alto, senza il cui aiuto si confonde; le chiede sempre sapienza per parlare bene a tutto il mondo.
* * *
Non sono pochi in Sicilia i cognomi tratti dalla cultura del pane. Vale la pena di citarne alcuni: Pane, Pani, Panetto, Panebianco, Panepinto, Mangiapane, Fregapane, Frangipane, Farina, La Farina, Farinella, Criscenti, Collura, Buccellato, Guastella. Ma l’elenco è più lungo se si aggiungono quelli delle varie specie di grano come Tumminia e Maiorca e quelli mutuati dagli strumenti per misurare i cereali, quali Tumino, Mezzasalma… Tutti questi cognomi originariamente dovevano essere ’nciurii, soprannomi che a volte si trasmettevano da padre a figlio, segni distintivi di un’identità più forte di quella conferita dai cognomi, specialmente nei comuni rurali. Nomignoli evocativi del pane tuttora esistenti, anche se vecchi di molti decenni,
se non addirittura di secoli, sono: Settipani a Bolognetta, Cuddiruni a Villafrati, Muffulettu a Misilmeri e chissà quanti altri nel resto della Sicilia.
Ma la cultura del pane non connotava soltanto il folklore rurale: era presente anche
nella concezione del mondo e della vita dei ceti popolari urbani. Emblematica è l’usanza relativa al trasloco in un nuovo appartamento: «quando si va ad abitare in una nuova casa, la prima volta che vi si entra si porta sotto l’ascella un pane e si sparge per terra del sale, affin discongiurare gli spiriti. Quegli spiriti poi che si vogliono rendere a noi benigni si salutano con la 84 formula:
Si saluta a lor signuri
Cu tutta la cumpagnia.
Il pane a volte si lascia intatto, a volte si tagliuzza e si lascia in certi luoghi della stessa casa».
Ovunque in Sicilia, in città e in campagna, era tenuto in gran conto il proverbio A-ccu ti leva ’u pani, levacci a vita. Si trattava di un’impietosa norma etico-giuridica, condannata dalle leggi dello Stato ma condivisa a livello folklorico. E non a caso giacché, essendo il pane (similmente al sangue) fonte di vita,chiunque lo levasse al prossimo meritava di essere ucciso, come il primo omicida nella vendetta barbaricina.
Ma la morte prima o poi arrivava per tutti; ed era sempre causa di disordine
esistenziale, specialmente nelle famiglie più povere. Il compito di rimuovere gli
effetti più devastanti spettava anche al pane e agli attrezzi che servivano a produrlo. Il ruolo di questi ultimi era, per la verità, limitato al momento dell’agonia,
«particolarmente esposto al pericolo della “perdita dell’anima”». Antidoto certo era questo scongiuro: Ti vagnu, Ti spagnu, Tiscugnu / a lu nomu di Diu! / cu st’acqua ca la benedici Gesù, / cu stu mazzettu di pitrusinu ch’ha la so virtù. / Va’ fora brutta bestia! In nomu di lu Patri, di lu Figghiu e di lu Spiritu Santu.
Faceva parte del rituale bagnare la lingua del moribondo con un mazzetto di prezzemolo intinto in un bicchier d’acqua. All’origine dello scongiuro c’era anche la credenza che l’agonia prolungata fosse segno di una maledizione divina e che in fin dei conti con i suoi movimenti incontrollati lo stesso agonizzante manifestasse la volontà di salutare la casa. Bisognava porvi rimedio cercando di capire quali norme divine avesse violato colui che stentava a morire. Uno dei tabù più radicati era distruggere gli attrezzi di lavoro. A tal proposito recentemente «è stata rilevata la persistenza di un complesso di credenze e di pratiche relative alla tabuizzazione degli oggetti, all’agonia assunta come pena per la sua violazione e ai meccanismi di risoluzione della crisi agonica, molte delle quali già rilevate dai demologi ottocenteschi». Eccone alcune:
A Furci e a Limina non possono essere distrutti né giogo né aratro da chi non li abbia costruiti: essi, comunque,
non vanno mai arsi. Ad Agira chi abbia bruciato un giogo non può avere buona o rapida fine. Qui viene
costruito (con cera, con canne o legno) un giogo in miniatura che è posto sotto il letto di chi agonizza […]
Anche a Nissoria non è lecito dar fuoco al giogo, pena un’indefinita e dolorosa sospensione del trapasso. Si usa dire: Cu ammazza jatti e abbrucia is
Nun po’ nesciri di ’stu paisi.
(Chi ammazza gatti e brucia gioghi non può uscire da questo paese).
Quando qualcuno stenta a morire, oltre a porre l’aratro sotto il letto, un membro della famiglia del moribondo va a gridare il suo nome per sette immondezzai diversi (si suol dire, vanniari lu numi ppi setti munnizzari). A Nicosia, inoltre, non possono essere arsi l’aratro, il bastone da pastore, la zappa, e secondo una credenza
popolare, quanti arnesi di lavoro sono a contatto con il sangue, umano o animale.
Ancora un’usanza relativa all’agonia è stata registrata a Mistretta. È credenza che soffrirà a lungo, prima di morire, chi avrà, come altrove, arso un giogo o mangiato una gru. Qualora si fosse attentato alla loro inviolabilità, è necessario un rituale teso a purificare dalla colpa e rendere più agevole il trapasso. Un parente del moribondo deve uscire, chiudendo dietro la porta, quindi bussare e contemporaneamente recitare ad alta voce: chè hai bruciato il giogo o hai mangiato carne di gru? Se non sei morto, muori.
Secondo un’altra versione, sempre a Mistretta, un vicino o un parente si affaccia alla finestra e grida la formula suddetta, mentre dirimpetto un’altra vicina la ripete.
Il giorno stesso della morte, le parenti più strette della buonanima avevano un gran dafare. Quelle dei comuni siculi-albanesi si affrettavano a distribuire ai poveri, in suffragio per l’anima del defunto, dei pani a forma di croce detti ’ncrikiet, ma anche frumento cotto detto cuccìa, senza dimenticarsi di dar loro da bere. L’usanza, sconosciuta nel resto della Sicilia, almeno nella seconda metà dell’Ottocento aveva un preciso riscontro nei paesi calabroalbanesi dove si distribuivano ai poveri le stesse cose. Il pane, a detta del Dorsa, si chiamava però pizzatuglit. Aveva forma «bislunga, con uno dei capi rilevato a tondo, che dicono la testa, e nel 38. centro un buco, quasi ombellico di corpicino»
In tutta l’Isola le parenti si facevano carico di portare da mangiare ai familiari del morto, usanza, questa, chiamata cùnsulu, cùnzulu, cùnsulatu nel Palermitano, casu a Marsala, cùanzilu a Mussomeli, cònsulu a Siracusa. Ma, indipendentemente dal nome, si trattava di un vero eproprio pranzo, nel quale accanto alla pastasciutta, alla carne e al vino, non mancava mai il pane, spesso impastato nottetempo, per offrirlo ancora flagrante ai parenti addolorati. A Gioiosa, nel Messinese, l’offerta del pasto veniva addirittura caricata su un asino che sfilava dietro il corteo funebre. «Portato al camposanto il cadavere, e seppellito, tutta quella roba s’imbandi[va] all’aperto o entro una casa»: parola di Giuseppe Pitrè. Ancora una ventina
d’anni fa il direttore del Museo Nazionale di Arti e Tradizioni Popolari di Roma, Annabella Rossi, notò in un cimitero palermitano «la presenza di alcune donne che mangiavano presso le tombe»
Nell’Ottocento a Modica si offriva da mangiare persino al morto. Si credeva, infatti, che nei primi tre giorni della dipartita la buonanima tornasse in famiglia «a sfamarsi di un po’ di pane, e a spegner la sete in un catino d’acqua». Perciò di notte i parenti lasciavano l’uscio socchiuso e collocavano dietro la porta il pane e l’acqua. A scanso di equivoci era spesso lo stesso moribondo a richiedere il rispetto di questa usanza. O perlomeno, così sembra, se non è solo un’invenzione letteraria questo brano del Guastella:
— Or bene: Nol vedete? Ormai sono agli sgoccioli, ma moio con terrore grandissimo. Comar Maddalena, voi siete l’unica mia parente. Giuratemi sul Crocifisso, di chiamar l’anima mia della strada. La vecchia si pose a piangere:
— Ve lo giuro, compare mio, ve lo giuro sul Crocifisso e sull’ostia consacrata.
— Voi mi levate una spina dal cuore: ma questo solo non basta. Guardatemi, Comar Maddalena: vedete come
è ridotto lo zio Clemente? … sfuggito dagli amici, schiacciato dai figli… costretto a morire nello Spedale… Chi nei tre giorni della mia morte metterà il pane e l’acqua innanzi all’uscio dello ospedale? La vecchia raddoppiò i singhiozzi…
— Io, io, compar Clemente, io che sono parente vostra. Credete forse che io non ci abbia pensato? A bella posta invece del sabato vegnente ho fatto il pane sta notte. Ho detto: il povero Clemente è come me, è senza denti… conviene che gli faccia un po’ di pane fresco: Nei tre giorni dopo la sua morte lo masticherà senza sforzo.
Da altre fonti sappiamo che per soddisfare le esigenze nutrizionali della buonanima nei tre giorni successivi alla morte, nella stessa città, i parenti lasciavano l’uscio di casa socchiuso e puntellato da una sedia, sulla quale collocavano «un bel pane fresco dalla forma di una cuddura, e un candeliere a tre beccucci accesi la prima giornata, due candelieri a tre beccucci la seconda, e tre candelieri a tre beccucci la terza».
Un’altra credenza della Contea di Modica voleva che, prima di raggiungere la sede
definitiva, l’anima dovesse fare obbligatoriamente un viaggio attraverso il cosiddetto Violu di San Jabbicu, percorso disagevole con «un’immensa sequela di spade rivolte dal taglio» su cui doveva camminare, povera anima, «nuda e coi piedi scalzi». La donna che volesse sottrarsi a questa prova in punto di morte, poteva assolvere all’obbligo in vita, recandosi in una chiesetta rurale dedicata San Giacomo, ma non senza l’osservanza di un preciso rituale: All’avemaria in punto manipola un uovu di pasta, cioè tanti maccheroni quanti possan trarsene impastando, senza miscela d’acqua, la farina necessaria per unirla con un uovo. Cuoce immediatamente quei maccheroni, e l’acqua entro la quale furono cotti ha premura di versarla in una di quelle… crete spregiate, come ebbe a cantare il Parini, le quali servono per l’uso che non è bello accennare. La donna si spoglia tutta fino alla camicia, si siede su quella creta, mette il piatto sulle ginocchia, e avvolge la mantellina intorno alla faccia, in modo che mangi senza vedere. Fatta questa operazione va a letto; ma guai se chiuda gli occhi al sonno! Sonata la mezzanotte, punto preciso, si toglie la stessa camicia, e nuda come un verme, si avvolge entro un lenzuolo lavato nella stessa mattina, e s’incammina nel viaggio. Sola però non può farlo perché sarebbe inefficace, ma ha bisogno di una donna che le sia comare da tre, da sei o da nove anni; e così entrambe s’incamminano silenziose alla chiesetta. Durante il viaggio non posson parlare, neanche se le bastonano, neanche se le insultino nel pudore.
Arrivate bussan tre volte alla porta chiusa della chiesetta, prima con le mani, poscia co’piedi, finalmente con la testa, s’inginocchiano, recitano nove paternostri, nove avemaria e nove gloria in onore del Santo, tre paternostri per l’agonia del Nostro Signore e un’ave, una salve regina alla Vergine Addolorata. Recitate le 44 preghiere ritornano sgranocchiando il rosario.
Ma non era credenza tutta locale della Contea di Modica, questa dei viaggi penitenziali in punta di morte. In Calabria bisognava attraversare il Ponte di San Giacomo, che era particolarmente pericoloso, «sottile come un filo di capello», su cui poteva passare agevolmente solo «il morto con pochi peccati». Ora, indipendentemente dal nome — Violu,
Ponte, o Scala di San Jabicu (come si chiamava nella maggior parte dei comuni siciliani) —, il passaggio pericoloso coincideva per tutti con la Via lattea, quell’immenso agglomerato di stelle che ad occhio nudo appare biancastro e la cultura folkorica siciliana dell’Ottocento immaginava «prodotta da alcune gocce di latte di Maria, cadute viaggiando su questa terra, e rimaste in cielo per volontà di Dio». Come qualsiasi pellegrino, l’anima doveva esser provvista di quanto occorreva per affrontare il viaggio. «Nelle credenze calabresi — scriveva Dorsa nel 1876 — i morti nelmettersi in viaggio per l’altra vita han bisogno di acqua e di pane. Se ne deduce che il loro viaggio è considerato simile a quello dei vivi: partono quelli come partono questi con pane e borraccia» . Identico era l’equipaggiamento dei morti che dovevano avventurarsi sulla tortuosa Scala di san Jabicu di Galizia «formata da coltelli, pugnali, chiodi, spine», anche se il viaggio doveva concludersi in un solo giorno o una sola notte, a seconda dal momento del decesso.
La volgare credenza di alcuni paesi ritiene che nel salire questa Scala bisogna portare con sé, come viatico, del pane ed un fiasco di vino; ritiene altresì che il viaggio possa farsi in vita mettendosi in cammino la notte de’ Morti alle 12 m. in punto; ma a tal uopo dovrebbesi avere in mano una canna a quattordici nodi, senza voltarsi mai indietro, qualunque siano le occasioni o le circostanze che l’obbligano a voltarsi. Percorsa la lunga scala, il pellegrino offre (prisenta) a Dio il viaggio. Se Dio lo accetta, buon per lui; in caso contrario, bisogna tornar daccapo l’anno seguente (Nossoria). Il viaggio in vita dispensa da quello dopo morte.
Ad alimentare questa credenza talvolta erano anche i preti. Nell’Agrigentino se una
persona dichiarava in confessione di nutrire dubbi sull’esistenza della Scala, poteva aspettarsi addirittura «la penitenza di stricari la lingua in qualche chiesa e in un dato giorno». La credenza «del ponte che i morti devono attraversare, per andare in paradiso o all’inferno, esiste, ancora oggi, presso i popoli slavi: da antichi testi russi risulta che si offrivano ai morti dei biscotti di pasta di pane in forma di ponte o in forma di scala per facilitare alle anime l’ascesa al cielo». Insomma,in un passato poi non troppo lontano i morti avevano fame in tutto il mondo e mangiavano a spese dei vivi, come documenta egregiamente Maria Zanzucchi Castelli, cui siamo debitori dell’informazione testè fornita.
Ma forse in nessun’altra regione del mondo, tranne la Calabria meridionale e qualche altra ristretta area del Sud dello Stivale, si riscontra una credenza come quella siciliana che vuole i morti elargitori di cibo ai vivi, sia pure una
volta l’anno.
Vige tuttora l’uso in Sicilia di fare delle strenne ai fanciulli il 2 novembre, giorno della
commemorazione dei defunti. «I regali, dolci o giocattoli, sono, secondo quanto dicono i genitori ai figli, portati in dono dalle anime dei parenti morti. Il popolo suole chiamare questa ricorrenza giorno o festa dei morti; inoltre non dice fra alcuni giorni verrà il 2 novembre, ma verranno i morti, spesso chiamati anime sante». È probabile che si esprimano con gli stessi termini i Messicani, considerato che anche nel loro paese nei primi due giorni di novembre i morti tornano in famiglia per stare in compagnia dei parenti vivi dai quali sono «invitati ed attesi come ospiti d’onore» e festeggiati con un entusiasmo che sconfina nel grottesco. Non per questo portano però regali ai bimbi, come i morti di Sicilia: mangiano, quelli, anche se non più Pan de muertos, ma dolci a forma di scheletro e teschi di zucchero. Invece nel 90% di comuni siciliani le anime sante strennano i bambini con pupi di zuccaru, detti anche pupi di cena o più sbrigativamente cena, pasti ri meli,ossa di morti (raffiguranti generalmente tibie ma anche scheletri), pupe, dolci antropomorfi, insomma; e giocattoli.
Nella strenna siciliana Antonino Buttitta individua un duplice significato: «Da una
parte essa rappresenta un’offerta alimentare alle anime dei defunti, dall’altra un chiaro esempio
di patrofagia simbolica; nel senso che il valore originario dei dolci antropomorfi, appartenenti alla strenna, era quello di raffigurare le anime dei defunti, in maniera che cibandosi di essi, era come se ci si cibasse dei trapassati stessi. Naturalmente il logico processo di trasformazione e di adattamento a forme nuove di pensiero, e quindi a nuovi costumi, ha fatto sì che l’attuale 53 significato di tali dolci e della strenna, in generale, non sia più quello di un tempo».
Il mutato orizzonte culturale ha fatto uscire definitivamente di scena i pani di morti descritti da Pitrè: «rotondi, intaccati a croce come berretti a spicchi da prete». Ma fino a un quarto di secolo fa, almeno a Canicattini Bagni, questo tipo di pane, anche se di forma ellissoidale, si faceva regolarmente fin dai primi di ottobre. A Palazzolo Acreide si plasmavano, per la stessa occasione, pani a forma di bambola (pupidda), «con una crocetta sul volto e una in basso, ai piedi». A Sortino, dove l’uso di distribuire i pani in suffragio dei defunti era abbastanza vivo, si facevano, e non è escluso che se ne facciano ancora, «due tipi di pani per i morti: uno
destinato ai bambini, che prende il nome di manu (o il diminuitivo manitta) ncoddru (alla lettera “mano addosso”), ha la forma di un braccio a semicerchio, che si congiunge alle estremità con due mani che si sovrappongono, con le dita aperte e ben definite; l’altro, destinato ai grandi, ha forma ellissoidale, con un taglio in mezzo nel senso della lunghezza, e prende per l’appunto il nome di ciaccateddru, cioè “spaccato”, “aperto”». E qualche vastidditta (pane comune di piccole dimensioni si faceva pure a Buccheri. «Ogni pane veniva offerto per l’anima di un solo defunto, e chi lo riceveva recitava il rosario in suffragio».
Nei risvolti della civiltà del pane si nascondono storie di precarietà esistenziale di
lunghissima durata, che difficilmente hanno trovato una penna pronta a descriverle. È il caso di tante vedove con prole a carico che, dopo la morte dl marito, si sono improvvisate fornaie per non far morir di fame i figli in tenera età. Negli anni cinquanta a Villafrati, un paese di tremila anime, ce n’erano almeno due in un solo quartiere abitato da contadini provvisti tutti di forno.
Era una pena veder tornare dalla campana una di esse con il suo pesante carico di legna sulle spalle curve come un uncino. Chissà se conosceva l’orazione a San Giovanni Battista che si soleva recitare a Butera per rendere più leggeri i fasci di legna:
San Giuvanni, san Giuvanni,
fasciu picciulu e fasciu granni;
lieggiu pi la via, gravusu ’n casa mia.
(San Giovanni, san Giovanni, / fascio piccolo e grande; / leggero lungo la via, / pesante a casa mia).
Doveva essere invece divertente vedere all’opera la ’gnu Carminedda Zito, alias
Zagaredda, fantasiosa fornaia di Chiusa Sclafani la quale, appena si accorgeva che il forno era pronto per l’infornata, si portava in mezzo alla strada per chiamare le clienti suonando una trombetta. «Allora si vedevano le donne uscire dalle loro case con le tavole piene di pane già allievitato, poggiate sulla testa o sul fianco, che si recavano solerti ad infornare il pane».
In molti paesi queste donne, come le altre madri di famiglia, quando infornavano il loro pane, non si dimenticavano di cuocere una cuddura per il primo bambino che passava per la strada. E se la promettevano a qualcuno in particolare, mantenevano l’impegno, perché come dice il proverbio, né a santi la curuna né a picciriddi la cuddura. In tal caso ne infornavano due.
Storie del passato, però. Storie dell’ultimo pane che profumava di grazia di Dio.
Articolo e realtà meravigliosa,un grazie di cuore per l’impegno a mantenere vive le tradizioni.
Desidererei chiedervi se nel vostro comune si organizano corsi o seminari,per imparare questa meravigliosa arte.
Grazie anticipatamente se vorrete rispondermi 😊