Il Museo del Grano e il futuro del passato a Campofelice di Fitalia
di Giuseppe Oddo*
“L’uomo che allarga ogni giorno il suo dominio su tutto ciò che lo circonda non è padrone del tempo, il grande galantuomo che tutto mette a posto. E il tempo a me è mancato di fare tante cose che pure avrei voluto veder compiute. Le mie pubblicazioni, quelle a cui tengo veramente, sono i miei grani. Non conta se essi portano il mio nome; ma ad essi è e resta affidata la modesta opera mia”.
Scritto da Nazareno Strampelli nel lontano 1932, sostituendo qualche parola, questo brano potrebbe essere scambiato facilmente per una delle più recenti affermazioni di Domenico Gambino (autore di diversi saggi sulla sua Campofelice di Fitalia), le cui migliori opere, quelle di cui egli si sente più fiero – come il primo si sentiva dei grani che aveva selezionato e incrociato con specie autoctone –, a suo dire, sono il “Museo del Grano e della Civiltà contadina siciliana” e l’omonima associazione che lo gestisce. Certo, Strampelli (1866-1942) era agronomo, un genetista agrario di fama internazionale, senatore del Regno e animatore della “Battaglia del grano” lanciata da Mussolini 90 anni fa. Gambino è un architetto sui 60 anni, fine intellettuale e assiduo ricercatore delle radici del futuro nel suo paese, una delle ultime roccaforti di Cerere nella Sicilia occidentale. Ma, fatti salvi lo scarto generazionale e i differenti contesti storico-geografici in cui si sono trovati ad operare, entrambi hanno investito buona parte della loro vita allo studio (con approcci diversi) di realtà cerealicole che hanno plasmato il paesaggio agrario e la civiltà contadina nel Bel Pese, i cui linguaggi, ritmi e stili di vita, cerimonie religiose e profane, tradizioni alimentari e rurali, riti comunitari e di passaggio, cocci sparsi di antiche strategie di sopravvivenza… tuttora rimandano (quasi a dispetto dell’etnocidio culturale subito nella seconda metà del ‘900), alla trepidante attesa del pane, legata fin dalla notte dei tempi alla vicenda sotterranea dei chicchi di grano affidati dai contadini alle cure della Madre Terra, dispensatrice del cibo di cui si nutre l’umanità.
E per uno dei tanti arcani disegni del destino, se nell’agosto 2014 Gambino inaugurava a Campofelice di Fitalia (nel contesto della festa padronale di San Giuseppe) il Museo del grano e della Civiltà contadina siciliana, l’11 dicembre dello stesso anno Ida Marandola, direttore generale facente funzioni del Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura (Cra) annunciava che un museo dedicato a Nazareno Strampelli, «padre del grano italiano», sarebbe stato allestito di lì a poco nella sede dell’ex Regia Stazione di Granicoltura di Rieti, dove all’inizio del Novecento il nostro aveva mosso i primi passi della sua brillante attività, volta ad incrementare, mediante il miglioramento genetico, la qualità e la quantità del grano prodotto in Italia. «D’intesa con il Ministero delle politiche agricole – precisava in quell’occasione la Marandola – abbiamo avviato un percorso di collaborazione anche con gli Enti pubblici, soprattutto finalizzato alla valorizzazione della eccezionale figura di Nazareno Strampelli, che tanto ha fatto per la nostra agricoltura. Un segnale importante per la cultura agroalimentare italiana nell’anno di Expo».
Ora, fino a questo momento è già tanto se esiste un virtuale Museo della Scienza del Grano “Nazareno Strampelli”, promosso dall’Archivio di Stato di Rieti e dall’amministrazione provinciale. Ma, com’è noto, la Provincia non può garantire nemmeno la sua sopravvivenza, a causa della legge Delrio (7 aprile 2014, n. 56). Ad ogni buon conto, il più convinto assertore della necessità di allestire un vero museo dedicato a Strampelli è stato e forse resta Roberto Lorenzetti, direttore dell’Archivio di Stato di Rieti, che non si è ancora stancato di proporre «un viaggio virtuale dentro una delle pagine della storia che significativamente ha inciso nella storia dell’umanità […]. Un’esperienza nata in una piccola città di provincia italiana, Rieti, diffondendosi poi in ogni angolo d’Italia e del mondo. I luoghi e gli spazi in cui quest’avventura scientifica si è concretizzata sono molti, e quindi la scelta virtuale è forse quella più adeguata per riunirli tutti […]. Ma il museo vuole essere anche […] uno spazio vivo nel quale potere attingere dati e informazioni, consultando centinaia di documenti inediti, ma anche libri e scritti di difficilissima reperibilità». Spazio ritagliato, appunto, nei locali della Stazione di Granicoltura “Nazareno Strampelli”.
Non per questo si è approfittato dell’Expo per dare un futuro certo al vecchio santuario di genetica agraria e agli undici ettari di verde in cui è immerso. La sola novità di rilievo registrata nel frattempo è un vago progetto (annunziato nel mese di febbraio dal Comune di Rieti) di destinare sia gli edifici che il verde alle attività didattiche di due istituti agrari in condivisione con l’Università degli studi della Tuscia. «La proposta – si legge nel sito del Comune – comprende l’utilizzo di parte dei laboratori e delle aule dell’edificio che ospita il Museo Strampelli, che com’è noto il Cra intende dismettere, realizzandovi un centro di ricerca da destinare alla didattica». Il “segnale importante” lanciato nel mese di dicembre 2014 dal direttore generale del Cra era, dunque, una sorta di fuoco fatuo, destinato a spegnersi meno di tre mesi dopo per farne brillare un altro, considerato più importante, tenuto forse conto della direzione del vento dei finanziamenti pubblici.
Se ci siamo soffermati su questa strana vicenda non è tanto o soltanto perché la mancata attuazione del progetto iniziale preclude ai pochi musei cerealicoli sorti negli ultimi anni in Italia la possibilità di avvalersi del supporto scientifico di una istituzione museale come quella che poteva nascere a Rieti per valorizzare la ricerca di Strampelli, ma perché il suo ridimensionamento finisce per esaltare in qualche modo i meriti di quanti – come Domenico Gambino – hanno investito denaro, molti anni di studio e fantasia creativa per allestire una rassegna permanente di reperti connotativi dell’identità locale. Meriti, il cui rilevo etico-culturale, soprattutto in Sicilia, discende dal capovolgimento del presupposto immorale che «arruubari a lu re, piccatu nun è». A fronte dei molti speculatori che si sono arricchiti a spese della collettività, l’architetto Gambino e (prima di lui) Antonino Uccello a Palazzolo Acreide, Francesco Carbone a Godrano e Salvatore Mirabile a Marsala hanno dimostrato con i fatti che si può fare a meno del denaro di “lu re”, cioè dello Stato, per realizzare un museo etno-antropologico. Anzi, “lu re” può essere addirittura beneficiario di investimenti privati volti a valorizzare l’identità del territorio, inteso (con Francesco Carbone) come «unicum-continuum tra città e campagna» e – perché no? – anche «dimensione del pensato e del vissuto, riferita ad un’area sia mentale che fisica, entro cui il quotidiano di ciascuno di noi diventa vita e memoria, storia individuale e collettiva». E si noti che (come già Uccello, Carbone e Mirabile) Gambino ha allestito il museo in un locale di cui è proprietario.
Ma accanto ai tratti comuni, i quattro musei citati hanno origini e caratteristiche diverse, cui vale la pena di accennare a volo d’uccello. La Casa Museo di Palazzolo Acreide è stata fondata nel 1971 da Antonino Uccello ed è frutto di una sua ricerca trentennale che ha finito per mettere insieme, oltre ai manufatti della civiltà contadina, anche oggetti di uso domestico e di pregio, non ultimi dei quali alcune pitture su vetro, statuine presepiali e cartelloni dell’Opra dei pupi, che lo studioso ha sistemato nel settecentesco palazzo Ferla-Bonelli, dove si possono pure ammirare gli ambienti tipici del mondo contadino della Sicilia sud-orientale: “casa ri stari”, “casa ri massaria”, il magazzino (“malazzè”) e il frantoio. Appena fu in grado di mostrare la sua creatura, Uccello la definì «un museo etnografico [che] potrà notevolmente contribuire a salvaguardare almeno in parte il materiale di studio, a educare e a sensibilizzare l’opinione pubblica». Dopo la morte del fondatore, la struttura è stata acquisita dalla Regione Siciliana, che ne ha fatto il primo museo regionale di esclusivo contenuto etnografico. Ma di fatto non ha ancora raggiunto un livello ottimale di fruibilità per mancanza di adeguati finanziamenti.
Un destino diverso è toccato al Museo etno-antropologico “Godranopoli” di Carbone, che pure dal 9 settembre 1983 (quando fu inaugurato) al 23 dicembre 1999 (giorno della scomparsa del fondatore) era sembrato preludere ad un luminoso avvenire. Allestito dall’omonimo “Centro Studi, Ricerca e Documentazione” (anch’esso creatura di Francesco, dotata di spazi per mostre, incontri, dibattiti, congressi, di una pinacoteca d’arte moderna e contemporanea, una biblioteca di storia e cultura siciliana, un periodico, una rassegna dei mestieri e del riciclaggio di attrezzi di lavoro e oggetti di uso quotidiano), il museo di Godrano ha calamitato l’attenzione di migliaia di visitatori e personalità nazionali e straniere, che hanno sempre apprezzato l’esposizione dei reperti per cicli produttivi (pane, olio, vino e pastorizia), la puntuale riproduzione degli ambienti domestici e i criteri di coinvolgimento emotivo del pubblico che, a detta del fondatore, ricalcano «le teorie della comunicazione formulate da Marshal McLuhan (quella fredda capace di maggiore partecipazione recettiva) nonché la distribuzione degli spazi prossemici rilevati da Edward T. Hall».
La morte di Francesco Carbone ha segnato l’inizio di un progressivo declino del museo, accelerato peraltro dalla sopravvenuta parziale inagibilità dei locali. L’esempio e la passione civile dello scomparso fondatore hanno lasciato comunque il segno, armando di nuova consapevolezza i migliori intellettuali espressi dai comuni della vasta area di Rocca Busambra (da Godrano, a Bolognetta, a Marineo, a Villafrati, a Mezzojuso, a Ciminna, a Campofelice di Fitalia), che hanno scritto non pochi articoli e saggi, organizzato spettacoli, mostre e dibattiti, che poi trovano la necessaria eco nella rivista «Nuova Busambra», da loro stessi fondata in un rapporto di continuità ideale con il sogno di Francesco Carbone.
Più rosee sembrano le speranze del “Museo delle Tradizioni e Arti Contadine della Regione Siciliana”, fondato e inaugurato a Marsala il 1° luglio 2000 da Salvatore Mirabile, poeta e animatore socio-culturale originario di Chiusa Sclafani. A differenza di tante altre istituzioni museali, pubbliche e private, questa si avvale periodicamente di iniziative collaterali (mostre, dibattiti, simposi letterali, ecc.) organizzate dal fondatore e da sua figlia Rossella, avvocato, artista versatile e presidente dell’associazione che gestisce il museo. A suscitare l’interesse dei visitatori è anche la sua strutturazione in un percorso obbligato che passa per diverse zone tematiche (della casa, del magazzino, della cantina, dell’olio, del pane, del vino, dei giochi di latta, dei giochi fanciulleschi, del ciclo della vita, dei mestieri). La zona delle collezioni e la zona didattica si trovano all’interno del salone conferenze. È triste, però, constatare che purtroppo gli sforzi dei Mirabile non abbiano ancora trovato una valida sponda pubblica.
La fondamentale specificità del “Museo del grano e della civiltà contadina siciliana” di Campofelice di Fitalia non consiste tanto nel tipo di reperti raccolti (che in fin dei conti, con qualche piccola differenza, somigliano a quelli esposti nella maggior parte dei musei etnografici siciliani) e nemmeno nei criteri di allestimento che (tenuto conto degli spazi disponibili) non si discostano molto dalla classica suddivisione per cicli produttivi tipici dell’agricoltura mediterranea con la necessaria attenzione agli ambienti domestici della famiglia contadina. Consiste, quasi esclusivamente, nella missione che Domenico Gambino e l’associazione “Museo del grano e della civiltà contadina siciliana” hanno voluto affidare alla loro creatura. «Una raccolta museale che intende valorizzare l’identità storico-culturale del paese come occasione di crescita», sintetizza il fondatore. Ma le sintesi non sempre sono colte dai destinatari del messaggio, pubblici e privati, per quelle che sono. Il fatto è che – in questo le parole di Gambino non possono essere equivocate da nessuno che sia in buona fede – il neonato Museo di Campofelice vuole essere innanzitutto «una esposizione emblematica di ciò che è stata per secoli la cerealicoltura in Sicilia. Una scelta, questa, determinata dalla realtà del piccolo comune dell’entroterra palermitano dove la vocazione cerealicola del proprio territorio, associata all’allevamento del bestiame, ha fissato l’identità della popolazione che vi è insediata e continua tuttora a caratterizzare l’economia locale».
Quello di Campofelice di Fitalia non è il solo museo del grano esistente in Sicilia, ma è sicuramente uno dei pochissimi censiti in Italia. Tra questi, spicca il Museo del Grano di Raddusa, in provincia di Catania, nato nel 1991 dopo che un gruppo di giovani della cooperativa Antares organizzò la 1a “Sacra dei prodotti tipici dell’agricoltura”. Bisognava però aspettare ancora alcuni anni e il trasferimento nei locali dell’ex cooperativa “La Cerere”, fondata nel 1910 per iniziativa dal “galantuomo” Nicolò Di Gregorio e dieci braccianti di Raddusa (che poterono così accedere al possesso della terra attraverso le affittanze collettive) perché il museo cominciasse a configurarsi come rassegna permanente. Diverse edizioni della “Festa del Grano” e i finanziamenti pubblici (compresi quelli della provincia che ora verranno a mancare) hanno fatto il resto.
E ai finanziamenti pubblici è affidata la sopravvivenza degli altri musei del grano, esistenti a Jelsi (Molise), Cerignola (Puglia), Ortacesus (Sardegna). Né hanno grande autonomia finanziaria i “musei del pane”, che si possono visitare persino in piccoli centri montani come Panettieri, nella Piccola Sila cosentina, dove vivono meno di 350 abitanti e, nondimeno, c’è addirittura anche un curioso “Museo del Brigante”, che racconta la vita e le avventure del fuorilegge locale Giosafatte Talarico (1805-1886), devoto della Madonna e «terrore delle tre Calabrie», che nel 1844 (in cambio della resa) riuscì ad ottenere dal futuro re Bomba una pensione di sei ducati e una casa nell’isola d’Ischia, di cui beneficiò da libero cittadino, anche sotto la corona sabauda, finché rimase in vita.
Ma anche Campofelice di Fitalia, la cui popolazione al censimento del 2011 raggiungeva 521 abitanti, può vantare a buon diritto più di un museo. Il primo è stato fondato alcuni anni fa dall’amministrazione comunale. Ubicata vicino al Municipio, questa piccola ma interessante struttura museale civica non è priva d’interesse etnonografico. Si può ammirare a richiesta degli occasionali visitatori avvisando con qualche anticipo il custode incaricato. Dentro il paese ci sono,
inoltre, una preziosa collezione di etno-reperti di proprietà di Antonino Richichi e la bottega del fabbro-ferraio mastro Cola Scaglione, che dopo la morte del titolare è rimasta attrezzata di tutto punto, com’era ai tempi in cui il nostro batteva il ferro, fabbricava e affilava falci, accette, zappe e punte di aratro a chiodo, ferrava cavalli, muli, asini e bardotti. Appena fuori dall’abitato – lungo la strada che porta allo scorrimento veloce – continua a fare in qualche modo superba mostra di sé ciò che resta del monumentale Borgo Fitalia, già centro direzionale dell’omonimo feudo e saltuaria sede di villeggiatura dei principi Settimo Calvello.
È appena il caso di notare che allo storico complesso architettonico rurale, individuato nel Piano Regolatore Generale del Comune di Campofelice come “Agglomerato case di Fitalia”, sono state attribuite non solo «tutte le destinazioni connesse e a servizio dell’uso agricolo del territorio (Museo, Mercato dell’agricoltura e dell’artigianato, Centro polivalente culturale, sale conferenze, attività scolastiche, ecc.), con annessi servizi di ristorazione, bar, chioschi, impianti tecnici e servizi igienici», ma anche «la destinazione ed attrezzature turistiche ed agrituristiche con relativi servizi». Nell’immaginario dei campofelicesi il Borgo Fitalia rimane, insomma, la Mecca di quella identità che Domenico Gambino, la sua associazione e il Museo del Grano e della Civiltà contadina siciliana si sono prefissi di recuperare e valorizzare all’interno dell’ambizioso progetto di assicurare al territorio un futuro degno della storia della piccola comunità insediata ai piedi del Pizzo Marabito, sito di notevole interesse archeologico frequentato dall’uomo dalla preistoria al medioevo. Il Museo civico, la collezione Richichi e la bottega di mastro Cola (che forse non sarebbe mai esistita senza gli sterminati campi di grano che biondeggiavano nelle campagne circostanti) sono anch’essi provvidenziali punti di forza dello stesso progetto abbozzato da Gambino, tenuto conto delle risorse territoriali. Certo, tutto sarebbe stato forse più facile se l’amministrazione civica locale avesse portato avanti con più decisione il progetto intrapreso 2009 quando, di concerto e sotto il patrocinio della presidenza della Provincia regionale di Palermo, indisse e celebrò la Festa del Grano e – con regolare delibera pubblicata nell’albo comunale – attribuì al Comune (che aveva già nello stemma due fasci di spighe dorate) il prestigioso marchio distintivo di «Paese del Grano».
A facilitare la realizzazione del progetto avrebbero potuto contribuire anche le tre Università dell’Isola se non fossero rimangiate la promessa fatta solennemente agli operatori culturali siciliani nell’ormai lontano 1978 di istituire in tempi reali «il Museo della Civiltà contadina siciliana, eventualmente con due sezioni, una a Palermo e una nella parte orientale dell’Isola». Né ci risulta che sia stato potenziato il Servizio Museografico (istituito nel 1980 dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo) che avrebbe dovuto fungere da centro studi e documentazione in grado di assicurare i necessari servizi di consulenza e coordinamento delle iniziative museografiche locali. Anzi, dopo che è andato in pensione il vecchio direttore, Pino Aiello (che il 20 agosto 2014 ha partecipato da pensionato all’inaugurazione del Museo del Grano e della Civiltà contadina siciliana) il servizio funziona sempre meno bene. Ma già prima avevano dovuto chiudere i battenti diverse strutture assistite dal Servizio Museografico e persino il Museo etno-antroplogico di Gibellina, nella Valle del Belice, al quale l’Università di Palermo aveva affidato l’ambita dignità di centro pilota dello sviluppo della museografia antropologica in Sicilia.
Ma non per questo il nuovo museo di Campofelice di Fitalia è necessariamente condannato ad avere una vita grama, senza gloria e senza infamia. Il pittoresco paesino è arroccato come nido d’aquila su una sorta di terrazza naturale che si affaccia sulla Pianotta di Vicari, da dove passava la più importante strada a ruota dell’Isola, la prima ad essere realizzata dai Borbone perché permetteva di collegare la capitale con Catania, Messina e le altre città siciliane, tranne quelle del Trapanese. Anche se meno esteso rispetto ai tempi in cui si diceva (invero senza troppa attinenza alla realtà) che i tre più grandi feudi siciliani fossero «Alia, Fitalia e Contumelia», il suo territorio ha nelle vicinanze tre importanti plaghe naturalistiche, la cui ricchezza ambientale non è sfuggita alla Regione Siciliana, che le ha inserite nell’elenco delle aree protette: il Bosco della Ficuzza, le Serre di Ciminna e la riserva di Chiarastella e Bagni di Cefalà Diana.
Si obietterà che, mentre si può fare in qualche modo affidamento sulla riserva del Bosco della Ficuzza (gestita dall’amministrazione forestale), con l’entrata in vigore delle norme abolitive delle province, il destino delle altre due aree protette (già affidate alla gestione della Provincia di Palermo) non è ancora chiaramente delineato. Ma sarebbe delittuoso sprecare le risorse naturali e culturali che vi sono sedimentate, come è avvenuto con l’installazione delle antiestetiche pale eoliche ad asse verticale persino in siti di grande interesse naturalistico e archeologico, come le Serre di Capizzana, nel territorio di Villafrati al confine con le Serre di Ciminna. Tutto questo ma anche il patrimonio artistico e monumentale custodito nei comuni di quella che Francesco Carbone chiamava «la vasta area di Rocca Busambra» e gli stessi castelli della Margana, di Vicari, Marineo e Cefalà Diana, le chiese cattoliche di rito greco e latino di Mezzojuso, il Baglio di Villafrati con il suo capiente teatro, le feste patronali e il Carnevale, le varie raccolte (pubbliche e private) di strumenti di lavoro e reperti della civiltà contadina non sfuggono certo all’attenzione della rivista «Nuova Busambra» e dei gruppi d’impegno culturale presenti nella zona. Non si può forse cominciare a metterli in rete con il Museo del Grano e della civiltà contadina siciliana?
Né si deve dimenticare che il 2 luglio 2014 è stata approvata, finalmente, la legge regionale n. 16, «mirante a conservare, comunicare e rinnovare l’identità culturale di una comunità», il cui primo articolo recita: «La Regione di concerto con le comunità locali, le parti sociali e gli enti locali riconosce, promuove e disciplina gli Ecomusei, allo scopo di recuperare, testimoniare e valorizzare la memoria storica, la vita, le figure, le tradizioni, la cultura materiale e immateriale, le relazioni fra ambiente naturale e ambiente antropizzato, le attività di lavoro artigianali e il modo in cui l’insediamento tradizionale ha caratterizzato la formazione e l’evoluzione del paesaggio e del territorio regionale, nella prospettiva di orientare lo sviluppo futuro del territorio in una logica di sostenibilità ambientale, economica e sociale, di responsabilità e di partecipazione dei soggetti pubblici e privati e dell’intera comunità locale».
Le basi teoriche di quella che negli anni Settanta del ‘900 sarebbe stata l’ecomuseologia furono gettate in Francia già nel 1936 dal grande etnologo Georges Henri Rivière (1897-1985). Nel frattempo sono cambiate molte cose e l’idea iniziale ha finito per assumere nuove connotazioni. Così come si è andato realizzando, a giudizio di Domenico Muscò, l’ecomuseo ha il suo maggior punto di forza nella «capacità di riconoscere e valorizzare le risorse storico-culturali ed ambientali dei luoghi, le loro tradizioni ed i saperi antichi, etc., che consente un’attenzione al territorio orientata alla salvaguardia dei beni e valorizzazione delle relazioni che li uniscono al patrimonio locale», promuovendo «le risorse mediante nuove forme organizzative sul territorio, che contribuiscono a sviluppare la coesione socio-culturale ed a rafforzare le economie locali».
Di fatto, la rete degli ecomusei, inizialmente diffusa solo in Francia e nel Canada, a partire dagli anni Novanta si è estesa in diversi paesi europei, soprattutto nelle zone limitrofe ai parchi e alle riserve naturali e nelle aree paleoindustriali dismesse. Come già l’agriturismo, gli ecomusei hanno trovato maggiore facilità di attecchimento in Piemonte, nel Trentino e in alcune aree della Toscana. Ma, ancor prima delle sua definizione normativa, il messaggio della nuova museologia (intesa con il suo massimo diffusore in Italia, Fredi Drugman del Politecnico di Milano) come capacità di «trasformare il museo da “salotto delle muse” ad “Agorà”, luogo pubblico per eccellenza, punto di aggregazione dei cittadini, casa del collettivo», dall’ottobre 2003, ossia da quando l’Unesco tutela anche i beni intangibili (tradizioni, spettacoli popolari, saperi artigiani, rituali comunitari) si è qualificato ed esteso a quasi tutte le altre regioni, compresa la Sicilia, dove ormai da diversi anni è stato progettato l’ecomuseo urbano del paesaggio “Maaap” della città di Catania, finanziato grazie ai fondi dell’Unione europea (misura 2.03 del POR Sicilia 2000-2006), che però non è stato ancora attuato. In compenso assolvono in qualche maniera alla funzione di ecomusei due strutture museografiche della civiltà agro-pastorale nell’entroterra siracusano: “I Luoghi del Lavoro Contadino” di Buscemi e la Casa Museo “Antonino Uccello” di Palazzolo Acreide, entrambi inseriti nel sito web della Regione Piemonte (www.ecomusei.net) dal 2002.
Sorge a questo punto spontanea una domanda: l’approvazione della legge regionale sugli ecomusei può assolvere alla funzione di pista di lancio anche per i musei etnografici allestiti nelle zone interne a vocazione cerealicola come Campofelice di Fitalia? Le ricerche di Giuseppe Garro, antropologo di scuola siciliana, storico delle religioni e presidente del “Centro Studio Iblei”, sembrano condurre a conclusioni moderatamente ottimistiche. «È importante – spiega – che nei musei etnografici entri la contemporaneità dei patrimoni viventi e che tali “beni” diventino oggetti primari degli allestimenti secondo modalità e prassi ormai consolidate, nell’ambito delle più recenti teorie museologiche. È fondamentale che il patrimonio immateriale che vive fuori dal museo (come possono essere le feste folkloriche religiose o profane) entri nell’attività di valorizzazione dello stesso, veicolando tale patrimonio attraverso il linguaggio proprio della comunicazione museale proponendo, al visitatore, costanti rinvii al territorio».
Non c’è dubbio, tuttavia, che l’analisi della realtà di Campofelice inviti tutti ad una maggiore cautela, tanto più se gli etno-reperti esposti da Gambino – come quelli del museo civico, della collezione di Richichi e della stessa bottega di mastro Cola – dovessero essere fruiti da pochi eletti che si ritrovino in determinate occasioni nel “salotto delle muse” per contemplare i più bei pezzi d’antiquariato. Il Museo del Grano non può fare nessun vero salto di qualità, se il borgo Fitalia rimane estraneo al progetto di ecomusealizzazione del territorio. Le difficoltà saranno naturalmente maggiori fino a quando il parlamento nazionale non avrà approvato la legge quadro sugli ecomusei e non avrà messo una buona volta fine alla confusione e frammentarietà degli strumenti e delle politiche di governo dello sviluppo territoriale. Rimane nondimeno motivo di gran conforto sapere che, se buona parte delle reliquie del lavoro e degli oggetti di uso domestico esposti nel Museo del Grano e della Civiltà contadina siciliana è stata raccolta pazientemente dal fondatore e dalla sua famiglia, molti altri reperti sono frutto di generose donazioni, come nella migliore tradizione della progettualità tipica venuta avanti man mano che l’idea di ecomuseo prendeva forma e consistenza. Se il buongiorno si vede dal mattino si può forse sperare che la proposta di Gambino diventi prima o poi realtà. Di scontato non c’è nulla, però. Se sono rose fioriranno.
Palermo 22 aprile 2015
*Studioso cultura del territorio