A proposito di Coronavirus, di Io, di Noi e della responsabilità.
di Giuseppe Nigliaccio
In questi giorni mi è capitato di leggere delle riflessioni su quello che noi italiani possiamo imparare da questo difficile periodo, in cui siamo alle prese con un nemico invisibile e, proprio per questo, siamo particolarmente disorientati. Molte delle riflessioni che ho letto sono condivisibili, alcune anche sagge. Anche io voglio condividere una breve riflessione su ciò che si può imparare da questa esperienza, ma tengo a precisare che non ho la pretesa di essere originale o di dire qualcosa di profondo e sconvolgente. Voglio dire quello che io sto capendo.
Sto capendo che la nostra vita non è soltanto nostra. Nella nostra quotidianità siamo immersi in una serie quasi infinita di relazioni, che emergono con chiarezza solo adesso che ci vengono sottratte. D’ora in poi dovremmo iniziare a usare la prima persona plurale tanto quanto la prima singolare. Senza i familiari, senza gli amici, senza i vicini, senza i colleghi di lavoro, senza gli sconosciuti che incontriamo per strada, cosa rimane della nostra vita? Forse per questo si dice che nessuno si salva da solo.
Sto capendo che siamo responsabili di molte più persone e di molte più situazioni di quelle normalmente potremmo considerare nostra “responsabilità”. Per adesso stiamo sperimentando come semplicemente respirando vicino a una persona, toccando una maniglia, facendo le migliaia di cose che quotidianamente abbiamo sempre fatto, possiamo contagiare e incidere in maniera drastica sulla vita di persone che possibilmente neanche conosciamo.
Quando questo incubo sarà finito, spero che sarò in grado di ricordare che questa responsabilità non sarà terminata. Anche se in gioco non ci sarà più il contagio delle persone che incontro, non verrà meno la responsabilità di poter incidere positivamente o negativamente sulla loro vita. Un gesto gentile, un consiglio o un sorriso possono cambiare la giornata e, a volte, la vita delle persone che incontriamo in maniera tale che non possiamo neanche immaginare.
Sta diventando chiaro per tutti che anche i ricchi hanno bisogno dello Stato. C’è un pregiudizio parecchio diffuso per cui lo Stato rappresenti solamente un ostacolo per i ceti benestanti e produttivi del paese. Ovviamente gli eccessi e le lungaggini della burocrazia sono da condannare, ma questi giorni ci stanno dicendo una cosa diversa. Ci stanno dicendo che non importa quanto si sia ricchi, si ha sempre bisogno dello Stato. Mi si dirà che i ricchi possono pagarsi le cure da sé. Ma se i propri operai, i propri collaboratori, se tutto il mondo che gravita attorno al ricco in questione si ammala e non potrà permettersi di curarsi, si capirà che la stessa ricchezza al di fuori di uno Stato si rivela poca cosa. Da quanto detto adesso ne consegue un’affermazione di per sé banale, ma che merita di essere ricordata: pagare le tasse è una cosa bellissima!
Ovviamente la tassazione deve essere equa e proporzionale al reddito. Inoltre i soldi dei contribuenti devono essere gestiti in maniera oculata, ma il punto in questione è un altro. Veniamo da decenni di una retorica politica volutamente semplicistica che ha portato nell’immaginario collettivo di noi italiani ad associare la parola tassa alla parola furto. In realtà questi giorni ci dimostrano cosa diventano le nostre tasse, quando ben impiegate. Diventano i respiratori per le unità di terapia intensiva, diventano le strutture, diventano le donne e gli uomini che si prendono cura di chi soffre. Attraverso le tasse noi ci ribelliamo alla legge della giungla che implica che il forte viva e che il debole perisca. Attraverso le tasse noi non lasciamo nessuno da solo.
Sì, in tutto quello che ho scritto non c’è nulla di rivoluzionario, nulla di sconvolgente. Eppure la commozione con cui in questi giorni stiamo valorizzando il lavoro eroico di medici e infermieri, mi ha fatto pensare che queste cose banali che ho scritto in fondo ce le fossimo scordate, che in fondo non sapessimo più cosa significa essere popolo, cosa significa essere Stato.
Un’ultima riflessione sulla pandemia e sulla democrazia. I gesti irresponsabili delle migliaia di nostri connazionali, che hanno violato le norme di protezione, hanno fatto sorgere in molte persone una sfiducia nei confronti della democrazia. Se non sono in grado di seguire semplici norme per la salvaguardia della vita propria e dei loro cari, potranno mai esercitare consapevolmente i diritti politici? Potranno mai meritare veramente il diritto di voto? Perdere la fiducia nella democrazia è, però, un prezzo che non possiamo pagare al virus. Tutti i regimi totalitari sono nati cavalcando le paure del popolo di nemici reali o presentati come tali. Adesso che il nemico è reale, che è attorno a noi, che è dentro di noi, la paura è legittima e può fisiologicamente condurre alla diffidenza nei confronti degli altri e nei confronti della democrazia. Come conciliare democrazia e responsabilità? Scuola. Sì la scuola è l’unica risposta, anche se non immediata. Dinanzi le scene degli assembramenti dei nostri connazionali in spiaggia o nelle strade della movida, ho avvertito dolorosamente il senso di fallimento delle agenzie educative. Allo stesso tempo, però, si manifesta con evidenza che non esiste un’alternativa alla scuola per la formazione del senso civico dei giovani. Chiunque abbia a cuore il destino della scuola deve impegnarsi per un suo ripensamento, per un superamento dell’attuale concezione dell’istruzione che corre il rischio di ritrovarsi spesso appiattita sulla spendibilità lavorativa degli insegnamenti proposti. Quali dovrebbero essere le caratteristiche di una scuola in grado di formare integralmente la persona? Sarei ingenuo e presuntuoso se pensassi di poter rispondere qui a una questione di tale complessità. Si potrebbe però partire dall’impegnarsi per una scuola che sappia educare alla responsabilità delle proprie azioni, una scuola che torni a educare al merito scolastico, ma soprattutto al merito civile.