I Santi râ nivi
di Vito Lazzara
Un freddo secco entra pian pianino nelle fessure dei cappotti e nelle gonne portate dalle donne rigorosamente sotto le ginocchia: sembra uno spillo che punge delicatamente la pelle delle signore che vanno a fare u viaggiu a Santa Lucia. Siamo quasi all’imbrunire e mentre molti uomini tornano dalla campagna manovrando con equilibrio un motozappa carico di olive, alcuni ragazzi sono impegnati, sotto la guida di un anziano, nel mpustari a vampa, cioè, nel sistemare la legna per un falò in onore della Santa. L’ordine di sistemazione della vampa si basa sull’infiammabilità della legna: prima la paglia, poi alcune fascine di tralci di vite messi a mo’ di capanna e infine le ramaglie.
Come nel resto della Sicilia, anche a Ciminna è viva una forte devozione per questa Santa, conterranea e protettrice della vista. In questo centro, tale festa insieme a quella di Sant’Antoni, San Antonio Abate (17 gennaio), Sammastianu, San Sebastiano (20 gennaio), San Mrasi, San Biagio, (3 febbraio) e Santa Ati, Sant’Agata (5 febbraio) per il fatto che cadono nel periodo invernale vengono chiamati con il nome di Santi râ nivi.
Come per la ricorrenza di Santa Lucia, è usanza per queste feste accendere delle vampe; negli ultimi anni, però, per la festività di San Biagio e per quella di Sant’Agata che delle cinque sono considerate le feste minori, non vengono più fatte. La semplicità, a mio giudizio, è la nota che caratterizza queste ricorrenze. Preludio della festa che arriva è innanzitutto il suono delle campane. Esse vengono suonate a mezzogiorno e all’Ave Maria della vigilia. Si è soliti, fare sfilare nel pomeriggio della vigilia il tamburo; il tamburinaio molto spesso viene pagato da una devota e addirittura chiamato dalla medesima. I più sbadati chiedono al suonatore il motivo di quel frastuono con tipiche domande: «Chi è chi c’è? (segue il nome del tamburinaio) » il quale risponde: «Santa Lucia», «San Mrasi», ecc…La conversazione si chiude lì, in quanto anche lo smemorato che vuole partecipare alle azioni liturgiche sa che esse si svolgono sempre nel medesimo orario.
Il giorno dopo, infatti, alle ore dieci viene celebrata una Messa nella chiesa dove è custodita l’immagine del Santo o della Santa; la chiesa, quindi, rimane aperta fino al tramonto per consentire ai fedeli la visita al loro Santo devoto. Alla comunità si continua a ricordare il giorno di festa facendo girare nuovamente il tamburo verso le nove del mattino. Il suonatore di tamburo compie il suo giro mattutino concludendolo davanti la chiesa. In quel luogo egli arriva poco prima della consacrazione; allora per quel momento egli esegue due rulli di tamburo che annunziano l’elevazione dell’ostia e del calice; infine, attende il termine della messa allietando la gente che lascia il tempio con il suo suono.
I fedeli, inoltre, vengono chiamati a rendere omaggio al santo dalla voce delle campane, suonate per l’intera giornata a scadenze di circa un’ora. La sera si conclude la giornata speciale di preghiera con la benedizione. La benedizione può essere con il SS. Sacramento o quando non è conservato in quella chiesa, essa avviene con la reliquia del santo. La reliquia, rimasta per l’intera giornata a bella vista per la venerazione dei fedeli, alla fine del rito viene presa dal sacerdote e fatta baciare a tutti i presenti. Durante il rito del bacio, possono essere cantati, nel caso in cui la tradizione lo permetta, inni e lodi al Santo. Quando la funzione liturgica volge al termine, i ragazzi accendono la vampa per far sì che essa si trovi al massimo della sua combustione durante l’uscita dei fedeli dalla chiesa. La piazza antistante la chiesa si riempie di persone, soprattutto uomini che stanno attorno al fuoco a scaldarsi, ma anche a chiacchierare del più e del meno. Forse non è tanto educato origliare, ma sin da piccolo sono stato attirato da quello che le persone dicono e quando si incontrano attorno alla vampa e durante le fiere. Si parla del più e del meno: «Finisti cu l’alivi?»; ma si può anche iniziare un negoziu, cioè iniziare un affare per la compravendita di terreni e case: «Ti l’a bbinniri u tirrenu a Lauru?». La sosta accanto alla vampa diventa un’occasione per confrontarsi e per rinsaldare i rapporti di vicinato sotto la protezione del santo e il calore di “fratello” fuoco.
É usanza per le medesime ricorrenze che le massaie preparino i divuzioni. Quest’ultime vengono preparate e offerte da persone che devono sciogliere un voto con il santo o la santa, e in base al tipo di prummisioni, la donazione può durare solo per quell’anno o per tutta la vita. Di come i divuzioni vengono preparati ce ne informa a za Maruzza Cassata: «Su comu viscuttedda, fatti ri farina, acqua e tanticchia ri sali, un si cci metti però ne criscenti e mancu levitu ri birra».
L’ingrediente principale è la farina di semola di grano duro impastata con acqua a cui viene aggiunto un pizzico di sale. I divuzioni, quindi, realizzati in varie forme in base alla fantasia delle donne, sistemate in una teglia venivano, infine, cotti al forno. Un tempo per la cottura veniva adoperato il forno a legna, mentre oggi si tende a portarli dal fornaio o addirittura per i piccoli quantitativi anche a cuocerli a casa. Qualche donna anticamente non li cuoceva neppure, ma li lasciava asciugare all’aria. I divuzioni possono assumere le forme più svariate ma in base alla festività vengono ricreati, secondo l’immaginario collettivo: l’occhi ri Santa Lucia e u cannarozzu ri San Mrasi. Vito Graziano ricorda nel suo libro «[…] di divuzioni fatti di varie forme fra le quali quelle di maiali e fiamme per Sant’Antonio» (Graziano 1936: 68). Assai curioso è sottolineare come nei giorni che precedono tale festività, la persona che deve fare i divuzioni chiami per essere aiutata le donne del vicinato; assieme per ore o addirittura per un’intera giornata stanno sedute a lavorare con la schiena piegata su i scannatura – ripiani in legno -. Possiamo immaginare l’atmosfera che si respira in queste occasioni dove si trovano insieme decine di donne. Quest’anno grazie all’aiuto di un mio amico sono riuscito ad intrufolarmi in una abitazione dove si facevano i divuzioni. Ho potuto assaporare la gioia dello stare insieme di molte donne; in quella casa, infatti, com’è usuale nei paesi si sparrava, si spettegolava, ma anche si scherzava e perfino si pregava: una donna stava con la corona in mano a recitare il rosario. I divuzioni, prima dell’inizio della messa, vengono portati in chiesa dal fedele che deve sciogliere il voto aiutato se ne è il caso da qualche vicina che l’ha coadiuvato nella realizzazione. Arrivati nel tempio sacro si dirigono in sacrestia dove il sacerdote li benedice.
Infine, i divuzioni verranno affidate al sacrista o a qualche persona anziana del vicinato il quale prendendone a piccoli quantitativi dalla sacrestia li porta al vanchiteddu. Si tratta di un piccolo tavolo posizionato all’ingresso della chiesa dove i devoti lasciano le loro offerte in denaro. Sul tavolino viene sistemato un vassoio o un cestino in vimini che servono per la raccolta del denaro, attorno al paniere vengono poggiate delle immaginette del santo. Ornano il ripiano una statuetta in legno o in terracotta di manifattura molto antica raffigurante il santo e due candele posizionate ai suoi lati. Un fedele qualsiasi, quindi, arrivato in chiesa lascia la sua offerta nel cestino prende un santino e riceve dal uomo posto dietro il tavolo delle divuzioni. Esse vengono solitamente date in proporzione dell’offerta: l’occhio furbo dell’uomo con discrezione, infatti, sbircia la cifra lasciata. Anche le stampe di una certa grandezza, posizionate solitamente sotto il vassoio vengono sempre donate in base all’offerta.
Una piccola nota, attinente queste feste, ha come protagonista Pietro Ulmo, meglio conosciuto come Petru Sosizza. Era un uomo molto semplice, residente a Mezzojuso, si guadagnava da vivere girando per le feste nei paesi del circondario, scomparso una decina di anni addietro, in un incidente d’auto sulla Palermo-Agrigento mentre si recava in una delle sue solite feste. L’attrattiva principale del mezzojusaro era il volo di palluna, dei palloni aerostatici. Quest’ultimi consistevano in manufatti realizzati con un anima in fil di ferro e ricoperti di carta velina. Essi potevano assumere forme diverse: quella della mongolfiera o anche della testa di gallo. Nella parte inferiore della piccola struttura veniva posizionato sempre con l’aiuto dei fili di ferro della bambagia o comunque del materiale infiammabile cosparso di alcool. Una volta acceso, il piccolo fuoco consumando ossigeno e rilasciando anidride carbonica permetteva al palluni di librarsi in aria fra le acclamazioni dei grandi e la gioia dei piccoli. Non mancavano però delle persone che spesso per fare innervosire u zuPetru bucavano i palluna. Questo avendo uno sfiato non riusciva ad alzarsi in aria per cui spesso si rideva e ci si divertiva più per i nervi e la bile che faceva il pover uomo che per il volo del palluni. U zu Petru si dilettava nel comporre poesie o strofe in onore del Santo. Esse venivano scritte in fogli di carta riciclata e attaccati nei muri delle vie che conducevano alla chiesa. Una di queste, leggibile fino a qualche anno fa portava scritto: Onoriamo fu centurione romano San Sebastiano. Tuttavia il suo mestiere ufficiale che giustificava la presenza in una festa era quello di tammurinaru.
All’interno di queste ricorrenze oltre ai tratti comuni, sopra ampiamente descritti, vi sono delle pratiche specifiche che caratterizzano quel santo.
A San Antonio viene comunemente affidata la protezione degli animali: un tempo, infatti, quando la presenza di bestie era numerosissima veniva portata in chiesa un po’ di pruvenna; consiste in una razione di cibo composta da fave e avena solitamente data a ovini, caprini, mucche, asini e muli. La pruvenna veniva benedetta dal sacerdote e in seguito data in cibo agli animali in piccole quantità[1].
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Tratto caratteristico della festa di San Sebastiano è la distribuzione di arance: le arance sostituiscono i divuzioni delle altre feste, esse però non rappresentano uno scioglimento di voti da parte del fedele ma vengono acquistate dal rettore della chiesa. Si distribuisce questo frutto perché secondo la tradizione San Sebastiano subì il martirio legato ad un arancio. Le arance vengono anche utilizzate per adornare una tela raffigurante San Sebastiano e la nicchia dove solitamente viene custodita l’effige del Santo, volendo così ricreare la chioma dell’albero che servì ai carnefici per saettarlo.
San Biagio, protettore della gola, ha come tratto specifico la benedizione dell’apparato vocale. Il sacerdote terminata la liturgia prende due candele ed incrociandole come a formare una X le posiziona in mezzo al collo del fedele implorando la benedizione del Santo.Alcune filastrocche, poi, si recitano in questo periodo:
Sant’Antoni u peri mi lori
c’è la nivi e nun pozzu viniri,
vui m’aviti a perdunari
si un vi vegnu a visitari[2].
Una variante, invece, così recita:
Sant’Antoni u peri mi lori
c’è la nivi e nun pozzu viniri,
metti un peri ncapu un canali
Sant’Antoni ti fa passari.[3]
Ciò veniva pronunziato dalla gente che per motivi vari, intemperie o malattie, non poteva accorrere alla chiesa del santo per venerarlo.Un’altra filastrocca recita in questo modo:
A li rui la canilora
a li tri la brasilora
a li scincu l’atilora,
tutti li festi su passati.
Arrispunni Santa Mattia:
«Quannu veni la festa mia?»
«Ca tu picchì rurmii».[4]
Essa vuole significare appunto, che le feste riguardanti i Santi râ nivi sono finite.
Nella cornice di questi molteplici festeggiamenti non possono mancare innumerevoli canti e molte preghiere che il popolo ciminnese eleva al Santo protettore nel giorno della sua festa. Ricchi di pia saggezza sono qui di seguito raccolti, testimoni di un fervore profondo e riverente.
NOTE:
[1] In altre località della Sicilia si è soliti, invece, benedire gli animali stessi (Cfr Buttitta 1999, p.32). A Ciminna la benedizione delle bestie veniva un tempo effettuata il giorno dell’Ascensione (cfr. all’interno di questo lavoro il capitolo “Passione Morte e Resurrezione”.
[2] San Antonio il piede mi duole/ c’è la neve e non posso venire/ voi mi dovete perdonare/ se non vi vengo a visitare.
[3] San Antonio il piede mi duole/ c’è la neve e non posso venire/ metti un piede sul canale/ San Antonio ti fa passare.
[4] Alle due la candelora/ alle tre la brasilora/ alle cinque l’atilora/ tutte le feste sono passate./ Risponde San Mattia:/ «Quando viene la festa mia?»,/ «E tu perché dormivi».
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